giovedì 5 giugno 2008

Un quartetto di disastri



Avevo scritto questi quattro saggi a metà degli anni '90 per un'enciclopedia del ventesimo secolo pubblicata in America. Offro la traduzione del testo in inglese come esempio della metodologia di analisi degli eventi catastrofici, praticata con l'obiettivo di trarre delle conclusioni utili per il futuro.


TERREMOTO IN ARMENIA

Breve riassunto. Circa 25.000 persone sono morte in un terremoto di magnitudo 6,9 che ha causato il crollo di tanti edifici malcostruiti in 3 città e 150 villaggi dell'Armenia settentrionale.

L'evento. La scossa principale avvenne alle 11,41 del 7 dicembre 1988, circa 80 km a sud della catena principale del Caucaso. Lo scuotimento durò 30 secondi e raggiunse il 21% dell'accellerazione gravitativa. Quattro minuti dopo arrivò una scossa d'assestamento di magnitudo 5,9, la quale causò ulteriori crolli tra gli edifici già danneggiati dal primo movimento tellurico.

Ufficialmente 24.944 persone morirono, sebbene alcune stime furono molto più alte. Dei 31.000 feriti, si dovettero ricoverare in ospedale 12.200.

Circa il 40% del territorio armeno fu interessato dal terremoto, e, dei 150 paesi danneggiati, 58 villaggi furono quasi interamente distrutti e 3 città furono gravemente danneggiate: Leninakan (pop. 290.000), Spitak (pop. 20.000) e Kirovakan (pop. non conosciuta). Ben 8 milioni di metri quadri degli alloggi (il 17% del totale armeno) furono distrutti o resi inagibili. Soltanto a Leninakan, 72 edifici alti sono crollati e 60 altri sono stati danneggiati oltre qualsiasi possibilità di ricupero. A Spitak, 9 km dall'epicentro, nessun alloggio rimase utilizzabile. In tutta la zona interessata dal sisma i senzatetto furono 514.000.

Mentre, i due impianti termonucleari dell'Armenia non ricevettero danni (un colpo di fortuna, dato la loro mancanza di adeguati sistemi di sicurezza), 130 fabbriche furono danneggiate o distrutte, un duro colpo all'economia armena. Le perdite economiche ammontavano a US$15 miliardi.

Le frane sismiche erano numerosissime, come erano i fenomeni di liquefazione. Alcuni villaggi molto isolati furono colpiti da valanghe detritiche, causando perdite di vite, e diverse strade e linee di ferrovia interrotte dai movimenti franosi. Come in altri eventi sismici di impatto molto disperso, i soccorsi raggiunsero i villaggi più remoti soltanto con massiccio ritardo.

Il comportamento sismico degli edifici. La cattiva qualità del suolo sotto Kirovakan, Leninakan e Spitak causò il crollo di diversi edifici, ma il tipo e la qualità di costruzione incisero molto di più. Gli edifici più vecchi erano costruiti in pietrame, spesso di una roccia vulcanica che si spaccava durante lo scuotimento sismico. Tali edifici avevano elementi orizzontali molto pesanti, di mattoneria oppure di cemento armato, e quindi il carico dinamico del terremoto causò lo spacco di angoli fino a provocare il crollo verso l'esterno dei muri e la caduta libera dei piani interni. Tuttavia, molti fabbricati più vecchi costruiti in pietrame hanno retto al sisma, e la maggior parte degli edifici crollati avevano meno di 15 anni.

Gli edifici più moderni erano di cemento armato, spesso con pannelli preformati anch'essi di cemento. Ma la debolezza delle giunture nelle intelaiature strutturali determinava spesso il crollo progressivo e totale dell'intero edificio. Se non, le scale si staccavano e crollavano durante lo scuotimento sismico, impedendo l'evacuazione degli occupanti.

Le norme altisismiche in Armenia erano insufficienti nel senso che sottostimavano la probabilità di forti scuotimenti e perché erano basati su un'insufficiente quantità di dati. Comunque, mentre il terremoto non fu prevedibile in sé, la sismicità della zona era ben conosciuta, tale da indicare le apposite misure da prendere. Però le autorità armene avevano ignorato un fondamentale lavoro scientifico del 1975, il quale aveva precisato le necessità di costruzione antisismica.

L'epidemiologia degli infortuni. Dal terremoto di Guatemala del 1976, a quello di Armenia del 1988, si è imparato molto sugli infortuni causati dagli eventi sismici, specialmente in rapporto alle inefficienze delle operazioni di soccorso, l'inutilità dei materiali inviati nella zona disastrata, e la predominanza di ferite da schiacciamento dovute al crollo degli edifici scossi dal sisma.

Mentre alcune vittime morirono di asfissia a causa della polvere proveniente dagli edifici sgretolati dai tremori, molti sono morti schiacciati sotto travi e macerie. La "sindrome dello schiaccamento" avviene quando la proteina mioglobulina viene rilasciata in quantità massiccia nel flusso del sangue dalla rottura del tessuto muscolare. Essa finisce per impedire il funzionamento dei reni, richiedendo un'immediata dialisi per salvare la vita del paziente. Fenomeni simili avvengono quando il potassio viene rilasciato nel flusso del sangue dalla rottura delle cellule schiacciate. A Yerevan, le unità di dialisi dei reni inviati dagli Stati Uniti permettevano l'esecuzione di 25-35 dialisi al giorno.

Un campione di 3 villaggi armeni, complessivamente di 8.500 abitanti, dimostrarono una mortalità del 49,5%, e una morbilità traumatica del 14,6%. Ma a parte il livello delle città, il peggio avvenne in alcuni edifici particolari che crollarono con una mortalità di oltre il 90% degli occupanti. Così morirono 205 di 215 operai in una fabbrica, e 285 di 302 ragazzi in una scuola. Tipicamente, le piastre costituenti i piani di tali edifici disintegrarono in frammenti talmente piccoli da non offrire spazio per sopravvivere tra le macerie.

Sotto le macerie giacevano circa 40.000 persone, di cui solo 15.000 sono state tirate fuori vive, maggiormente da altri sopravvissuti utilizzando soltanto arnesi rudimentali. Mentre qualche vittima è stata salvata ben 19 giorni dopo il terremoto, il 90% delle persone intrappolate e salvate vive sono state liberate entro 24 ore dalla scossa principale.

La logistica. Le operazioni di ricerca e salvataggio, e di soccorsi in genere, furono caotiche, inefficienti e lente da iniziare. Il tempo alternava da nebbia a neve, con temperature notturne che scendevano a -20EC. Infatti, la situazione meteorologica, insieme al fatto che quasi tutti gli ospedali della zona interessata dal terremoto non funzionavano più, rallentava i soccorsi in modo particolare. Inoltre, l'80% dei medici e degli infermieri della zona morirono nel terremoto. Quindi, i feriti dovevano essere portati a Yerevan e Tblisi. La mancanza di un'adeguato sistema di gestione del traffico aereo, insieme alle cattive condizioni meteorologiche, ebbero come risultato in 2 scontri aerei, complessivamente con 85 morti.

Il problema dei medicinali. Nei primi giorni dopo il disastro sono mancati analgesici, antibiotici, anestetici, fluidi endovenosi, siringhe, barelle, e attrezzi per trasportare i feriti.

Circa 60 ore dopo l'impatto iniziava un'operazione di soccorso in cui ben 70 nazioni donavano denaro, manodopera, viveri e altri aiuti. Entro una settimana dal disastro, l'aeroporto principale di Yerevan gestiva 150 voli al giorno e 32 magazzini di materiali donati. Ben 5.000 tonnellate di medicinali e rifornimenti medici sono arrivati dall'estero (il 25-30% per valore di tutte le donazioni), di cui solo il 30% risultava utile, mentre l'8% era scaduta e l'11% era di tipo inutile. La maggior parte del resto era composta da medicinali complessivamente di 238 nomi in 21 lingue diverse, tale da non poter identificare la sostanza in questione. Le traduzioni in russo erano rare e in armeno inesistenti. Quindi, alla fine del mese si dovette distruggere il 20% dei medicinali. Inoltre, una strategia efficiente per gestire i rifornimenti medici si è avuta soltanto 2 settimane dopo il disastro. Nel frattempo i produttori di medicinali hanno apparentemente colto l'occasione per scaricare i loro avanzi sulla zona disastrata.

Il contesto. Il terremoto armeno avvenne in mezzo ad un processo di trasformazione dell'Unione Sovietica. Fu il primo evento del genere in cui le autorità sovietiche accettarono una grande quantità di auiti dall'estero.

Tuttavia, la gravità del disastro non riuscì a cancellare le preesistenti preoccupazioni politiche: alcuni soccorritori azeri sono stati aggrediti dagli armeni, alcuni politici locali usavano la situazione per diffondere l'ultranazionalismo, le tensioni etniche crescevano fortemente e infine nemmeno il coprifuovo e la presenza di 13.000 truppe sovietiche riusciva a contenere la situazione.

INCENDI NELLA MACCHIA MEDITERRANEA DELLA CALIFORNIA

Breve riassunto. Nell'autunno del 1993 alcuni incendi nella macchia della California meridionale bruciarono 79.000 ettari e 1.814 case, soprattutto a Malibu. Tre persone morirono nelle fiamme.

L'evento. Alla fine di ottobre 1993, una serie di incendi bruciarono una larga fascia della macchia mediterranea della parte meridionale e più urbanizzata dello Stato di California. In 6 contee, compresa quella di Los Angeles, 14 incendi distrussero interamente 731 case e 66.800 ettari di brughiera. Le perdite economiche furono stimate in più di $1 miliardo.

All'inizio di novembre 1993 nove altri incendi hanno ucciso 3 persone, ferito 111, e distrutto 1.084 case, lasciando più di 30.000 persone senza tetto. A Malibu, 350 case furono distrutte con danni che ammontavano a $375 milioni. I feriti denunciavano intossicazione dal fumo, ustioni e danni ai polmoni causati dalla respirazione di aria surriscaldata.

L'incendio di Malibu ebbe inizio ad est della città alle 11,45 del 2 novembre 1993. In sole 4 ore le fiamme viaggiarono 19 km lungo le profonde valli incise nelle colline costiere fino a lambire l'oceano Pacifico. Il fuoco saltava 15-20 m nell'aria e sul lungomare le palme scoppiavano spettacolarmente in fiamme.

Raffiche di un vento di tipo Santa Ana tiravano un'aria calda e secca a 90 km orari e spingevano l'incendio verso la zona urbana della costa, necessitando l'evacuazione di scuole, fabbriche, case e un'università. Molti residenti, preoccupati della sorte delle proprie case, rifiutavano di evacuare. Di conseguenza, anziché per combattere le fiamme, metà dei pompieri presenti nella zona residenziale di Emerald Bay furono utilizzati per salvare la vita di chi si rifiutava di andare via.

La logistica. Ben 7.000 pompieri erano presenti nella zona. Si impegnavano le ruspe per togliere materiali combustibili dalla brughiera intorno a Malibu, e si faceva grande uso di un diverso numero di elicotteri Bell-412, capaci di portare 1.400 litri di acqua, e di aerei C-130, i quali possono trasportare 11.000 litri di sostanze chimiche utilizzate per sopprimere le fiamme. Tuttavia, i rischi erano troppo grossi per poter volare di notte.

La strategia per combattere l'incendio consisteva nella creazione di una serie di confini, mantenuti contro le fiamme da linee di pompieri insieme ai loro 250 mezzi. Si allestiva un posto di comando sul lungomare. Ma diverse volte, le linee sono state spezzate dalle fiamme, e di fronte a questo pericolo, si è dovuto ritirare anche il posto di comando. A Las Flores Creek, le fiamme passavano nel vento sopra i pompieri, i quali sono rimasti quasi circondati.

Gli incendi selvatici. Sebbene la protezione di risorse ad alto valore richieda l'impiego di un intervento sempre diretto e vigoroso, ogni giorno si dovrebbe formulare una nuova strategia per combattere l'incendio in base alle condizioni meteorologiche.

Un cosiddetto incendio selvatico brucia fuori controllo e minaccia le persone, gli insediamenti o altre risorse. Tramite barriere naturali o costruite, un incendio confinato viene limitato ad una determitata area, mentre il dilagarsi di un incendio contenuto viene impedito da una linea di controllo. Se quest'ultimo avvolge tutta la zona in fiamme, si ha un incendio diretto. L'incendio di Malibu fu prima contenuto e poi diretto.

Quando bruciano i rami e le foglie di un albero si ha un incendio di corona, che può divampare in rapporto alle fiamme in superficie (incendio dipendente) o propagarsi direttamente da un'albero all'altro (incendio scorrevole). La maggior parte degli incendi nella macchia mediterranea sono incendi dipendenti di corona e incendi di superficie, e possono causare incendi nel terreno ("ground fires") se il materiale combustibile giace sul terreno in uno strato spesso e consistente. I back-burns ("incendi ripassanti") possono avvenire se il materiale combustibile non viene interamente consumato dal primo passaggio delle fiamme, e se il vento cambia direzione tale da rispingere l'incendio indietro. I venti forti possono causare gli incendi a chiazza quando essi gettano frasche brucianti davanti alla linea del fuoco. Nella macchia, la temperatura dell'incendio può raggiungere 1100EC.

A Malibu si ebbe un incendio di superficie con elementi di incendio di corona che si autopropagava da un albero ad un altro. La radiazione e la circolazione dell'aria stimulava l'incendio a propagarsi sulle colline, non soltanto a progredire verso il mare spinto dal vento. Come spesso accade, le irregolarità del vento e della distribuzione territoriale di materiali combustibili spingevano il fronte dell'incendio in forma irregolare caratterizzata dal frequente scoppio di incendi a chiazza.

L'erosione accelerata e altri effetti ambientali. Dieci giorni dopo l'incendio a Malibu, la caduta di 4 cm di pioggia in 24 ore diede luogo ad un episodio di erosione accelerata nella zona bruciata, compresa una serie di colate di fango che portarono via alcune case e una parte della strada costiera.

Quando la vegetazione della macchia mediterranea brucia, essa distilla alcune sostanze chimiche naturali che impermeabilizzano il suolo con uno strato idrofobico. Nello stesso tempo la distruzione della vegetazione da via libera all'erosione, la quale viene potenziata dall'aumento del deflusso di acqua sullo strato impermeabile. Il risultato è una serie di colate di fango che arrivano con le prime piogge dopo l'incendio.

La elevata frequenza di incendi, la potenza micidiale delle frane e la continua urbanizzazione di nuove aree determina il declino delle popolazioni di specie di uccelli rari. Gli incendi californiani del 1993 hanno lasciato un habitat talmente frammentato che alcune specie di avifauna rara probabilmente non riusciranno a superare la scossa.

Il rischio di incendio in California. Ogni anno circa 3.000 incendi scoppiano nelle macchie della California meridionale. Molti sono di origine dolosa, ma meno del 20% delle persone colpevoli vengono soperte.

Come altrove, in California il rischio di incendio raggiunge un massimo nelle aree tra le zone di nuova urbanizzazione e il terreno ancora in stato naturale. Sono delle aree di massima crescita demografica e quindi di grande frequenza degli incendi, i quali causano danni ingenti e costosi nel giro di poche ore. Circa un terzo del costo consiste nelle spese per combattere l'incendio.

Buone risposte al rischio. Gli incendi devastanti del 1970 e del 1977 ebbero come esito la creazione del California Firescope, una struttura basata su un Sistema di Commando centralizzato di Incidente (ICS) e su un Sistema di Coordinamento Multiagenzia (MACS), con un centro dotato di un sofisticato sistema di informazione sugli incendi. L'intervento di emergenza è basato sulle previsioni del tempo e sulla sorveglianza ad infrarosso delle aree di potenziale incendio. Nel caso del rapido sviluppo di un grosso incendio, la chiave all'intervento efficiente è il sistema di mutua assistenza tra le varie autorità regionali e locali, il quale garantisce un certo livello tempestivo di manodopera impiegata contro le fiamme.

Un'incendio catastrofico stimola alcune misure, come allargare le vie di accesso alle zone di maggior rischio, comprare più mezzi (come l'aereo canadese CL-215 "super-scooper", che è capace di sollevare 6.000 litri di acqua in solo 12 secondi), e migliorare la pianificazione e il coordinamento degli interventi di emergenza. Inoltre, poiché brucia alcune case e ne risparmia altre, l'incendio può anche dimostrare l'utilità delle norme per la riduzione dell'infiammabilità dei materiali edili.

Buone risposte al rischio. In California, come altrove, l'impiego delle apposite norme antincendio è variabile da un luogo all'altro quanto la tendenza a rispettarle. Dopo il grosso incendio di Oakland del 1991, il 25% delle case ricostruite non avevano le misure richieste dalla nuova normativa per evitare il divampare delle fiamme.

Ripetuti sondaggi nell'opinione pubblica californiana hanno rivelato un progressivo aumento della sensibilità del problema incendi, ma senza una tendenza a prendere misure sufficienti per mitigare il rischio.

Malgrado un ottimo piano di assicurazione contro i danni provocati dal fuoco, le compagnie di assicurazione hanno fatto ben poco per incoraggiare i loro clienti a ridurre il rischio di incendio. In sintesi, alcuni ricercatori sostengono che l'offerta di generosi prestiti e rimborsi ha praticamente premiato i proprietari di case bruciate per non aver mitigato il rischio.

VALANGHE NELLE ALPI EUROPEE

Breve riassunto. Diverse valanghe di neve uccisero 150 persone nel Dipartimento francese di Savoia, nell'alta valle del Rodano in Svizzera e nel Tirolo austriaco. In ciascun paese i disastri diedero luogo a nuovi programmi di mitigazione del rischio di valanga.

Gli eventi di febbraio 1970. Nelle Alpi europee i disastri causati dalle valanghe di neve avvengono in base allo spessore della coltre di neve, alle condizioni meteorologiche e all'uso del terreno in fondo ai versanti interessati dall'instabilità. Avvengono due tipi di catastrofe. Nel primo, le condizioni meteorologiche favorevoli alle valanghe durano a lungo, dando luogo ad un alto rischio che continua per lunghi periodi. Ad esempio, nell'inverno del 1950-1, 650 persone morirono in una serie di valanghe alpine che complessivamente distrussero 2.500 edifici.

Nel secondo tipo, disastri provocati da singoli eventi che interessano soprattutto gruppi di sciatori o alpinisti avvengono negli anni di rischio generalmente basso. Così, in Svizzera nel 1960 un gruppo di 88 lavoratori morirono sotto una valanga proveniente da un ghiacciaio.

L'anno 1970 offre un buon esempio del primo tipo, una stagione disastrosa, che induceva ad una rivalutazione generale delle precauzioni contro le valanghe alpine.

Nel febbraio del 1970 le temperature nelle Alpi oscillavano continuamente intorno allo zero, con notevoli inalzamenti quotidiani. Nelle aree ad alta quota e sui versanti piuttosto ripidi, questa situazione provocava una crescente instabilità in coltri di neve addensate in precedenza da un'abbondante nevicata.

Il 10 febbraio 42 persone morirono e 60 furono ferite da una valanga in Val d'Isère, nel Dipartimento francese di Savoia. Fu un movimento di neve polverosa, con un fronte largo 45-90 m e uno spessore al momento di fermarsi di 3,65 m. Invase un ostello della gioventù, dove una trentina di giovani morirono asfissiati o schiacciati, mentre un'altra dozzina di persone venne spazzata via da fuori l'edificio. L'ostello era stato costruito solo 7 anni prima; il suo sito non era stato considerato luogo di particolare rischio ed era, inoltre, protetto in alto da una serie di blocchi di cemento, i quali, però, non contribuirono a fermare la valanga.

Da parte delle autorità francesi, il rapido riconoscimento di un pericolo determinò l'immediata chiusura di Val d'Isère. Un elicottero riuscì ad evacuare i feriti una sola volta prima del peggioramento delle condizioni meteorologiche tale da bloccare ogni possibilità di volare. Il primo convoglio di macchine che usciva dalla valle fu travolto da una nuova valanga, mentre un simile evento altrove uccise una bambina. Appena possibile le autorità evacuarono 5.000 persone da alberghi e residenze nella zona.

In seguito al disastro si polemizzò molto sull'apparente riluttanza delle autorità francesi di investire nelle misure strutturali per la mitigazione delle valanghe (gallerie, recinti, tetti, ecc.) quando si investiva parecchio nella promozione dello sport invernale. Essendosi recentemente trasferito da Chambéry a Grenoble, l'Istituto Nazionale per la Ricerca sulla Neve aveva appena perso il suo rappresentante in Val d'Isère.

Più tardi nel mese, in Svizzera 11 persone furono uccise e 19 ferite da una valanga che non si era visto simile in quel sito da più di mezzo secolo. Malgrado che 500 truppe e 12 cani ricercassero i sopravvissuti, non fu facile evacuare i sinistrati in mezzo alle nevicate e con il rischio continuo di altre valanghe.

Il 25 febbraio un villaggio su Monte Cenis nelle Alpi francesi fu investito da una valanga ben 10 volte più grande di quella di Val d'Isère. Sette furono le vite perse. Il movimento fu immediatemente preceduto da un'onda di pressione che demolì diversi edifici. Ci vollero 13 ore per estrarre le vittime dalla neve. Lo stesso giorno una valanga nel Tirolo uccise 2 persone in mezzo alla strada principale di St Leonhard am Pitztal. Nelle province austriache di Tirolo e Vorarlberg le valanghe erano talmente diffuse da impedire l'evacuazione di 14.000 persone.

Nel frattempo gli svizzeri facevano largo uso di materiale esplosivo gettato da elicotteri per provocare valanghe prima che l'accumulo di neve costituisse un pericolo. In Italia, nel frattempo, 7 soldati morirono sotto una valanga durante le loro esercitazioni.

Gli eventi di aprile 1970. Il 15 aprile 1970, quando le temperature erano insolitamente alte per la stagione, una valanga a lastre di ghiaccio colpì un sanatorio nell'Alta Savoia francese. Si dovettero impegnare 21 ruspe per setacciare le macerie, da cui furono estratte 72 salme, 56 delle quali bambini. Alcuni ulteriori movimenti di neve, ghiaccio e macerie ferirono 13 soccorritori.

Il rischio valanga nelle Alpi. Nelle Alpi europee, come in altre catene montuose, le cifre degli infortuni per valanga variano parecchio da un anno all'altro. In Svizzera, ad esempio, la media è di 17.480 eventi e 24 morti, ma questo può variare di diversi ordini di magnitudine.

Le popolazioni indigene continuano a diminuire nelle aree alpine, mentre aumentano quelle saltuarie, le quali non sempre conoscono bene i rischi. In solo 30 anni alcuni centri sciistici nelle Alpi sono cresciuti di 20-50 volte rispetto alle loro dimensioni nel 1945. Intanto, le popolazioni di vacanzieri aumentano proprio nel periodo di massimo pericolo di valanga.

Nell'inverno del 1970 i rischi variavano con le condizioni meteorologiche. In febbraio avvenivano valanghe di neve polverosa associate con il freddo. Erano di una rapidità tale da causare onde di pressione capaci di travolgere persone ed edifici. Invece, le valanghe di aprile erano composte di lastre di ghiaccio, le quali generavano pressioni di impatto in rapporto con la loro più alta densità. Gli eventi di febbraio erano la conseguenza di tempeste, quelli di aprile di scioglimenti.

Il salvataggio. Si riscontravano grande difficoltà di estrarre le vittime dalla neve delle valanghe di febbraio 1970. I cani, che in Svizzera trovano il 50% delle persone sepolte sotto la neve, non riuscirono a individuare una persona intrappolata a più di un metro sotto la superficie. La neve più profonda richiede le sonde con pali, sonar oppure sensori ad infrarosso, ma la ricerca diventa assai difficile quando una forte nevicata è in atto.

La mitigazione. Le valanghe del 1970 hanno dato luogo ad un potenziamento delle previsioni del tempo che causa le valanghe. Ma gli eventi di aprile 1970 non furono di un tipo particolarmente prevedibile, ed inoltre una previsione è valida soltanto se viene collegata con un programma di mitigazione strutturale e non-strutturale, compresa la pianificazione degli insediamenti umani e l'evacuazione delle popolazioni durante i periodi di massimo rischio.

Da molti anni i francesi e gli svizzeri hanno raccolto dati sulle valanghe e hanno compilato carte di rischio a scale che vanno da 1:10.000 a 1:50.000. Durante gli anni '70 i comuni alpini della Francia si impegnavano a pianificare la loro crescita urbana in base alla cartografia del rischio di valanga, vietando la nuova costruzione nelle zone "rosse", e limitandola nelle zone "blu". Però, alcune iniziative simili nella Svizzera sono stati impedite dalla divisione della resposabilità per la zonazione urbana tra i governi dei cantoni e quello dello stato federale. Questa situazione ha portato una notevole disomogeneità di legislazione in materia di pianificazione contro il pericolo delle valanghe.

Malgrado questo, gli svizzeri hanno fatto largo uso dei metodi strutturali e nonstrutturali per la mitigazione delle valanghe, utilizzando una buona combinazione di misure. Invece, gli italiani, per la maggior parte, hanno utilizzato le misure strutturali molto costose, le quali sono state contrabilanciate da un massiccio disboscamento e un grande sviluppo di impianti sportivi.

In sintesi, i disastri alpini dell'inverno del 1970 rappresentavano un'ottima "finestra di opportunità" per introdurre alcune misure di mitigazione. Comunque, l'espansione del turismo e degli sport alpini ha contribuito a mantenere piuttosto costante il numero di disastri dovuti alle valanghe, sebbene la loro entità sia diminuita a causa di una migliore previsione e della pianificazione contro le valanghe.

FRANA AD ABERFAN IN GALLES

Breve riassunto. Un cumulo di detriti provenienti da una miniera di carbone crollò su Aberfan, un paese di minatori nel Galles meridionale. La frana distrusse una scuola elementare e 18 case, e uccise 116 bambini e 18 adulti.

L'evento. Alle 09,15 del 21 ottobre 1966, franarono 117.000 m; di detriti provenienti da una miniera di carbone e ammassati in un cumulo di altezza 67 metri. In una serie di onde detritiche sature di acqua la colata viaggiò a 15-30 km/hr lungo un versante di pendenza 12,5E. Circa 75.000 m; dei detriti si fermarono a piede del cumulo, ma 42.000 m; viaggiò altri 100 metri e arrivò in mezzo all'adiacente paese di Aberfan (pop. 4.000) formando un deposito spesso 7-9 metri.

La colata di detriti demolì due case e schiacciò i loro occupanti. In seguito distrusse una scuola piena di bambini e 18 case nel paese. Delle 144 persone colpite dalla colata nessuna si salvò. Tra i morti ci furono 5 insegnanti e 109 bambini della scuola di età tra 7 e 10 anni. Sette altri bambini morirono e altri 29 ragazzi e 6 adulti furono feriti, alcuni gravemente. Diverse case furono alluvionate dai flussi di acqua proveniente dalla colata e dalla rottura di un'acquedotto.

Le condizioni antestanti. Dagli anni '20 i detriti provenienti dalla miniera erano stati ammassati in 7 cumuli di altezza tra 17 e 67 m. Nel 1962 si iniziava un processo di raffinamento del carbone che lasciava pezzetti di scarto che in seguito andavano scaricati nel settimo cumulo, del quale i ceneri componevano il 39% e acqua il 6-8%. Di conseguenza, questo cumulo aveva una densità bassa ed era saturo di acqua proveniente maggiormente da una sorgente naturale ubicata sotto la massa di detriti. Nessuna perizia geologica era mai stata compiuta per i siti dei 7 cumuli.

Negli anni '70 la Gran Bretagna produceva e scaricava nell'aria aperta circa 50 milioni di tonnellate di materiale roccioso del tipo che è franato ad Aberfan. Già nel 1939 circa 180.000 tonnellate di detriti da una miniera nei pressi di Aberfan erano franati per una distanza di 400 m attraversando una delle principali strade della zona. Ma nel 1966 la gente del paese si preoccupava di più del rischio di un'alluvione, dato che diverse volte durante i periodi umidi l'acqua defluiva in mezzo alle strade e entrava nelle case. Infatti, malgrado l'avvenimento di piccoli movimenti nel 1944 e nel 1963, gli ingegneri non aspettavano che le colate succedessero in materiali grossolani quanto quelli dei cumuli di detriti provenienti dalle miniere.

La reazione al disastro. Il disastro fu seguito immediatamente da una massiccia "reazione a convergenza", in cui la manodopera e l'aiuto arrivavano ad Aberfan in quantità eccessive. Un fondo per i sinistrati accumulava ,1.750.000 in donazioni provenienti, non soltanto da tutto il Regno Unito, ma anche da 40 altre nazioni. Malgrado una serie di litigi tra gli amministratori del fondo e i sopravvissuti della catastrofe, il denaro fu usato bene per compensare chi denunciava perdite materiali, per creare un memoriale alle vittime, e per costruire un centro sociale per il paese. Comunque non si poteva mitigare il fatto che una comunità molto solidale aveva perso quasi un'intera generazione dei suoi bambini.

Una questione di responsabilità. All'inizio, né l'Ufficio Gallese del Governo britannico, né l'Ente Nazionale per il Carbone (NCB), ammettevano responsibilità per il disastro. I paesani di Aberfan combattevano con tutta la loro forza per far incriminare i colpevoli, ma si riscontrava una fitta resistenza da parte delle autorità. Inoltre, l'NCB rifiutava di radere i cumuli di detriti, i quali continuavano a costituire sia un pericolo per il paese che un simbolo della disgrazia. Infine, l'opinione pubblica costrinse il governo a stanziare i fondi per la rimozione di tutti i 7 cumuli. Il tribunale di inchiesta trovò 9 ufficiali dell'NCB colpevoli di grande negligenza, ma la legge non era tale che potessero essere processati, e infatti nemmeno il Direttore dell'NCB si era dimesso. In sintesi, malgrado le chiare indicazioni al contrario, per molti anni prima della sciagura, l'NCB ripetutamente assicurava gli abitanti di Aberfan che non c'era pericolo di un crollo dei cumuli detritici. In seguito alla catastrofe esso negava ogni responsabilità affinché non era forzato dal tribunale ad ammettere la propria colpevolezza. Ma il tribunale non riuscì ad incriminare le persone che con le proprie azioni avevano dato luogo alla calamità.

Un aspetto notevole del disastro di Aberfan è la totale mancanza di piani, regolamenti, perizie e normative per gestire il processo di scarico intorno alle miniere. Come solitamente accade in questi casi, subito dopo la catastrofe le leggi furono aggiornate in rimedio. Ma a quel punto l'eminente ingegnere Prof. Alan Bishop di Imperial College, Università di Londra, aveva dimostrato tramite calcoli e modelli fisici che, sotto le circostanze, Aberfan era un disastro inevitabile.

Aspetti umani della tragedia. Dato un certo consenso al fatto che i minatori pagano un prezzo sproporzionato per la creazione del benessere della società, gli abitanti del Regno Unito e di altri paesi provavano grande compassione e simpatia verso Aberfan. Essendo profondamente scossi dal disastro, molti abitanti, poco abituati a stare al centro dell'attenzione, non erano felici dell'invadenza del mondo esterno. Però, la solidarietà del paese ha retto e poche persone e famiglie si sono traslocate al di fuori della zona. Ma tale era la scossa psicologica che molti dei sopravissuti di Aberfan negavano per anni che la tragedia fosse successa. Come nella colata detritica di Buffalo Creek, Pennsylvania (anch'essa proveniente da una miniera), che uccise 118 persone nel 1972, tra i sinistrati di Aberfan si notava una "sindrome dei sopravvissuti", composta di un terrore interiore, una tendenza a rivivere la tragedia e uno stato di "paralisi psicologica", ovvero un "collasso provvisorio dell'ego."

Infine, le micidiali colate detritiche causate dalle attività miniere continuano a succedere, come ne è esempio il caso italiano della Val Stava, 1985, in cui 264 persone morirono.

FRANA AD ANCONA

Breve riassunto. La frana del 1982 interessò 341 ettari della parte settentrionale della città di Ancona. Essa distrusse 476 edifici e lasciò 3.661 persone senza tetto.

L'evento. Durante la notte del 13 dicembre 1982 una frana interessò il versante del Montagnolo al lato settentrionale della città marchigiana di Ancona e sulla costa del Mare Adriatico. Furono danneggiati 294 edifici residenziali, composti di 1.025 alloggi, e 182 altri edifici, compresi 2 ospedali, la palestra e la facoltà di medicina dell'Università di Ancona, alcune chiese, un cimitero, diverse fabbriche, alcuni poderi, una caserma delle forze dell'ordine, e alcuni laboratori artigianali ed industriali. I sinistrati furono 3.661, dei quali un paziente è morto quando dovette essere evacuato dalla sala di rianimazione di uno degli ospedali interessati dal movimento franoso.

Il nucleo urbano di Borghetto dovette essere interamente demolito, e alcune parti dei sobborghi anconetani di Posatora, Pinocchio, Palombella e Torrette subirono gravi danni. Severi impatti furono riscontrati anche dalle strade che attraversavano la zona e dalla ferrovia adriatica, la quale passa sopra il piede della frana. In più, i condotti della luce, del gas e dell'elettricità furono troncati. Il costo dei danni fu stimato come Lit. 1.000 miliardi.

Le cause. Il movimento avvenne dopo alcune settimane di pioggia. Mentre lo scuotimento sismico avrebbe potuto contribuire alla destabilizzazione del versante, non era un fattore scatenante del movimento del 1982. Le cause a lungo termine includevano l'effetto dell'erosione costiera nell'aumentare la ripidità del versante, e la cattiva gestione dell'infiltrazione della pioggia e del drenaggio del versante nelle zone di recente ed attuale crescita urbana. La principale causa a corto termine era l'alta pressione interstiziale dell'umidità del suolo, soprattutto nella parte superiore del versante.

La storia. Al punto della frana il versante di Montagnolo raggiunge 251 m sopra il livello del mare, è largo 1.400 m e ha una pendenza che varia da 9 e 18E. La zona era interessata da problemi di stabilità sin dal 1770, quando i collegamenti postali furono interrotti frequentemente da movimenti superficiali sulla vecchia strada che attraversa la zona. Al principio del ventesimo secolo una frana di 16 ettari distrusse la conceria Barducci e lambì la ferrovia alla base del versante. Un ingegnere chiamato dalle Ferrovie dello Stato per fare una perizia geologica concluse che il versante necessitava delle misure eccezionali per garantire la sua stabilità. Ubicata a monte della frana Barducci, la vecchia casa delle poste si ruotava spettacolarmente a monte di circa 3E, costituendo una chiara testimonianza all'instabilità della zona.

Negli anni '70 il Piano Regolatore Generale di Ancona prendeva una ampia espansione urbana verso il nord della città. Nel 1970 un impiegato del Servizio Geologico di Stato previse accuratamente il meccanismo e l'entità della frana (con 12 anni di anticipo) e suggerì una serie di misure ingegneristiche per consolidare la zona a rischio. Tuttavia, pochissime delle opere proposte furono costruite. Invece, l'urbanizzazione dell'area continuava con la costruzione di case e palazzi in mezzo alla zona instabile e della facoltà di medicina al piede della vecchia frana Barducci. Un'ulteriore perizia geotecnica, pubblicata nel Bollettino della Società Geologica Italiana nel 1974, concluse che la zona era essenzialmente stabile anche se, stranamente, i dati presentati nel medesimo lavoro dimostravano esattamente l'opposto.

Il meccanismo di movimento. Il versante del Montagnolo sorge un una litologia poco complicata la quale è composta di argille azurre fessurate, con vari gradi di compattezza, e un sabbione leggermente consolidato. Le investigazioni geologiche in seguito al disastro conclusero che la frana era avvenuta su un piano di taglio ubicato fino a 120 m sotto la superficie del versante. Comunque, i dati provenienti da trivellazioni ed inclinometri non confermavano questa ipotesi, ed è più probabile che le straordinarie dimensioni del movimento risultassero da un movimento progressivo di placche di terreno a causa di un mutamento del tipo "shear deformation" a profondità non maggiore di 40-45 m, con interessamento del resto del versante a causa dello spostamento del suo equilibrio generale.

La teleosservazione ad infrarosso indica la presenza di due sostanziose macchie di umidità del suolo, una immediatemente sotto la corona di distacco alla testa della frana, e l'altra in prossimità di una trincea di subsidenza che si apriva in mezzo della frana a causa dei movimenti distensionali franosi e della presenza di una faglia normale che attraversa il versante in direzione nord-sud.

Il comportamento degli edifici. La grande frana di Ancona ha fornito molta informazione sulla reazione di edifici di vari tipi alle forze e ai movimenti indotti da un grosso e complesso movimento franoso. Le strutture più vecchie erano di mattoni rossi cotti, di modeste dimensioni e quasi prive di fondazioni. Invece, le strutture più moderne erano per la maggior parte di cemento armato, sebbene nella zona vi fosse qualche struttura in acciaio. La spaccatura dovuta alla frana tendeva ad esser unidirezionale e a risultare da una pressione sostenuta causata dalla subsidenza, dal rigonfiamento o dalla spinta proveniente dal movimento franoso. Dove la subsidenza differenziale ha interessato le fondazioni, un edificio con struttura portante in cemento armato poteva inclinarsi fino a 6,5E senza crollare, ma nella maggior parte dei casi un'inclinazione di 2-3E era sufficiente per compromettere la stabilità dell'edifico irrimediabilmente. Se i pannelli della facciata fossero ben ancorati alla struttura portante, un edificio in acciaio poteva resistere la conpressione senza crollare fino ad un metro di deformazione.

In genere, gli edifici in cemento armato funzionavano meglio di tutti gli altri sotto il carico della frana, dato che il grado di integrazione delle loro strutture permetteva loro di resistere alle forze massicce. Il rischio più elevato si riscontrava dove gli edifici erano situati attraverso le scarpate di frana e quindi dove essi risentivano di forti movimenti differenziali, tali da causare inclinazioni, rotazioni, compressioni o distensioni delle loro strutture.

Conclusione. In sintesi, la grande frana di Ancona era un altro disastro altamente prevedibile e adirittura previsto con ampio tempo di anticipo. Mentre le interpretazioni possono variare, i dati che dimostravano molto chiaramente la presenza di un alto grado di rischio di instabilità erano liberamente disponibili in tutto il periodo di espansione urbana antestante alla catastrofe. Negli anni prima e dopo l'evento, quasi ogni aspetto del disastro è stato politicizzato, con l'effetto che si stentava e si stenta ancora a separare la realtà oggettiva dalle speculazioni e dalle opinioni prive di fondamenta. Con il senno di poi, la questione principale ancora da risolvere è quanto il disastro risultava da una trasformazione ambientale basata su un'ignoranza del rischio di frana e quanto invece essa risultava da una speculazione che deliberatamente ignorava il rischio. La catastrofe, con il suo elevato costo in termini di denaro pubblico, dimostra il pericolo, non soltanto di una mancanza di controllo ambientale dei processi di urbanizzazione, ma anche dei rischi inerenti a un controllo in cui il colpevole è anche il giudice e la giuria del risultante processo.