martedì 29 aprile 2008

Come stanno le cose in protezione civile



In Kashmir nel 2005 10.000 scuole sono state distrutte dal sisma, 17.000 bambini e ragazzi sono morti sotto le macerie ed altri 30.000 bambini hanno perso le proprie scuole. Mentre è assai improbabile che si manifesti una situazione del genere in Italia, il terremoto del Kashmir ha stimolato, non soltanto il fiume della solidarietà italiana, ma anche un aumento del senso di paura riguardo la vulnerabilità sismica delle scuole italiane, specialmente nell'ottica del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia. In Italia, circa 6,6 milioni di bambini e ragazzi frequentano 60.000 scuole. Molti degli edifici sono ubicati in zone sismiche e i fondi per renderli tutti resistenti al sisma sono insufficienti. Questa situazione costituisce un dilemma difficile dal punto di essere angosciante rispetto a quali scuole scegliere per l'adeguamento sismico urgente e quali non includere nei programmi. C'è, inoltre, una mancanza di dibattito pubblico, probabilmente per paura delle conseguenze quando i genitori si rendono conto che i loro figli frequentano scuole che non sono state adeguate al rischio.

Quest'anno alcuni studiosi e professionisti hanno fondato un gruppo internazionale intitolato COGSS - Coalition for Global School Safety (Coalizione Globale per la Sicurezza delle Scuole). L'iniziativa parte dal principio che i bambini e i ragazzi abbiano un diritto morale, non soltanto a ricevere un'educazione scolastica, ma ad averla in condizioni di sicurezza. COGSS lotterà per convincere i governi di tutti i paesi del mondo a rispettare questo principio. Il suo sito web, di taglio multinazionale e multilingue, è sotto costruzione a www.interragate.info/cogss/index.html.

L'obiettivo di COGSS è di fornire gli strumenti per approfitare dalle esperienze positive e dai best practice dovunque che si riesca ad identificare qualcosa che vale la pena condividere. Nella protezione civile non seguiamo questa linea quanto potremmo. Ad esempio, uno dei documenti più interessanti e di maggiore rilievo pubblicato durante quest'anno è il rapporto sulle bombe londinesi del 7 luglio 2005 compilato da una commissione di deputati della London Assembly, il "parlamento" della città di Londra (vedi www.london.gov.uk/assembly/reports/general.jsp). Gli autori di questo rapporto non hanno soltanto ricostruito in parole la dinamica di quella tremenda giornata e della risposta di emergenza agli eventi, ma hanno anche raccolto i punti di vista di una larga gamma di esponenti della protezione civile, di vittime e superstiti dei quattro oltraggi terroristici, di londinesi qualunque, e di molti altri soggetti.

Alcune della conclusioni del rapporto sono ben conosciute da tempo, ad esempio sul bisogno di migliorare la cooperazione in situazioni di emergenza tra organizzazioni che normalmente non lavorano insieme, o per lo meno non collaborano nello stesso modo in assenza di una crisi. Altre conclusioni dovrebbero essere ripetute più spesso, ad esempio sul bisogno di rinforzare i canali di comunicazione durante le grandi emergenze. Le reti di telefonia cellulare possono entrare in avaria (a Londra hanno subito raggiunto la saturazione), le frequenze radio potrebbero essere incompatibili, e le radio potrebbero non funzionare in ambienti sotterranei o elevati. Ma la Commissione ha trovato che i più pressanti problemi di comunicazione erano quelli riguardo la presa e la diffusione delle decisioni. E' necessario dare enfasi al fatto che in uno stato di emergenza bisogna dare ordini chiari ed espliciti alle persone giuste al momento giusto, bisogna condividere le decisioni tra le organizzazioni partecipanti, e bisogna informare i protagonisti della protezione civile di che cosa fanno, e che cosa non fanno, gli altri protagonisti delle operazioni di emergenza.

La conclusione più interessante della Commissione dell'Assemblea Londinese è che la protezione civile ha bisogna di uno sostanzioso riorientamento. Finora si è occupato preferenzialmente dell'allestimento e del perfezionamento di organizzazioni, procedure e protocolli, un orientamento che perviene naturalmente dal bisogno di creare un sistema in grado di funzionare. Comunque, adesso il sistema dovrebbe dare maggiore ascolto ai beneficiari del suo lavoro: alle vittime, ai superstiti ed ai cittadini coinvolti negli incidenti e a tutti le persone che hanno bisogno di aiuto nelle situazioni di crisi. Il servizio dovrebbe essere organizzato dal punto di vista dei loro bisogni, non soltanto per facilitare le organizzazioni ed i sistemi di riferimento del settore.

Questa importante osservazione sottolinea i benefici guadagnati quando si condivide nell'arena internazionale le esperienze della protezione civile. Dobbiamo aumentare e facilitare questa condivisione a tutti i livelli.

In Italia il moderno sistema di protezione civile, eccelente in molti sensi, non è stato ancora messo alla prova da un grande disastro, per fortuna perché chi vorrebbe che avvenisse un evento del genere? Come andrà nel prossimo grande evento? Quali lezioni verranno imparate? Quante lezioni possiamo anticipare ed imparare adesso, tale da non ripetere i soliti errori nel futuro? Sappiamo tutti che preparare per le emergenze non è un processo liscio e lineare. Come nella guerra, ci sono lunghi intervalli di attesa interrotti da brevi periodi di attività frenetica. Ma i periodi di attesa possono essere dedicati alla preparazione, alla formazione e all'addestramento.

In diverse regioni d'Italia si sta creando standard di formazione in materia di protezione civile. In Lombardia, ad esempio, lo Standard regionale per la formazione del personale di emergenza, di larga applicazione, costituisce un passo avanti molto positivo ed è frutto della paziente preparazione "in tempi di pace". Una perizia condotta dall'ANCITEL Lombardia, l'ente di ricerca dell'Associazione dei Comuni, ha rivelato lo svolgimento nella regione di quasi 600 corsi di protezione civile. Mentre un numero così grande rappresenta un segno molto incoraggiante, bisogna imporre un grado di ordine sul contenuto, sulla durata e sulla qualità dei programmi formativi offerti, e questo sarà l'obiettivo dello standard. Mi meraviglia sempre che, mentre la chirurgia al cervello giustamente non può essere praticata da persone prive degli appositi titoli, nel mondo moderno le situazioni di infortunio di massa possono essere gestite da persone senza formazione e sproviste di titoli. Davvero il processo di trasformare la gestione delle emergenze in una professione è lento ed arduo. Essa richiede una costante simbiosi tra il fabbisogno dei corsisti di formazione, i corsi che vengono offerti, i titoli e le qualificazioni che risultano, e il ricognoscimento ufficiale del risultato.

I delegati ad un recente convegno a Roma hanno notato l'esistenza di una spiccata differenza tra "lezioni identificate" e "lezioni imparate". In altre parole, non è sufficiente condurre un debriefing e elencare le cose che hanno bisogno di attenzione prima del prossimo disastro. Ci deve essere un chiaro processo di assorbimento delle lezioni e di svolgimento di azioni in base a ciò che indicano.

E' sorso in questi giorni l'imperativo ad imparare le lezioni di eventi recenti, come l'uragano, Katrina, che ha colpito New Orleans e gli stati del Golfo del Messico alla fine dell'estate 2005. Nello stesso convegno di Roma l'ex-direttore della US Federal Emergency Management Agency (FEMA) ha riflettuto sulle lezioni di Katrina, un evento che l'illustre Professor Quarantelli dell'Università di Delaware ha definito "il peggiore caso di gestione di un'emergenza che ho mai visto in 65 anni di studio dei disastri". A causa di una concentrazione eccessiva sulla preparazione contro il terrorismo, il Governo Federale statunitense ha in effetti "disimparato" le lezioni del disastro naturale. Facciamo in modo che gli stessi errori non vengano commessi in Europa!

Malgrado questo, non bisogna sottostimare l'importanza delle preparazioni per gli oltraggi terroristici. Una vecchia maledizione cinese dice "che tu viva in tempi interessanti". Il filosofo antico fu convinto che una vita priva di eventi sarebbe più felice di una vita affollata di sensazioni assai forti. Intanto, i tempi moderni sono "interessanti" nel senso cinese. In questo momento è chiaro che la geopolitica abbia reso il mondo più pericoloso anziché più sicuro. Come risultato siamo tutti a rischio. Il sito web dello US National Memorial Institute for the Prevention of Terrorism (www.mipt.org) dimostra che gli oltraggi terroristici stanno diventando progressivamente più comuni e più estesi nel mondo. Il sito dimostra anche un'inquietante tendenza del numero di incidenti di crescere. Inoltre, il terrorismo non è soltanto un problema delle aree metropolitane. Dobbiamo affrontare il difficile compito di far sì in modo che la minaccia del terrorismo non sia né esaggerata ne sottostimata, e di fare così a tutti i livelli fino a quello delle unità operative e geografiche più piccole. La stessa cosa è vera rispetto al rischio di una pandemia di aviaria. Una cosa del genere è molto più di una minaccia alla salute: essa potrebbe, ad esempio, causare il colasso dei servizi essenziali a causa dell'assenteismo del personale. Infatti, in Francia l'aviaria viene considerata il pericolo nazionale più grave in assoluto, malgrado i rischi costituiti da eventi meteorologici e idrologici, incidenti nucleari e una larga diffusione di tensioni sociali.

Finora queste riflessioni sono stati un po' troppo nere e minacciose, ma bisogna sempre rendere omaggio al lato positivo. Il sistema italiano di protezione civile può essere ancora da completare (la stessa cosa è vera in tutti i paesi del mondo), ma esso sta vivendo un periodo di rapidissima evoluzione ed è già al punto di poter servire come esempio e ispirazione per il resto dell'Europa: nella mia opinione non esiste un sistema con lineamenti migliori. Recentemente ho avuto il piacere di partecipare nell'inaugurazione del nuovo centro operativo del comune di Signa in Provincia di Firenze. Alla cerimonia sono stato colpito da quanto la protezione civile in Italia è diventata una grande famiglia, con un forte senso di obiettivi condivisi e di mutuo rispetto. In questo momento il paese, e infatti il continente, non si rende conto di quanto abbia bisogno di questa famiglia, ma un giorno sarà consapevole, e molte persone apprezzeranno la sua forza e il senso crescente di preparazione e professionalità. Buon lavoro a tutti i protagonisti della protezione civile italiana!

Per una scuola più sicura: la pianificazione dell'evacuazione



Nel 1933 un terremoto causò severi danni a dozzine di edifici scolastici nelle vicinanze di Long Beach, California. Fortunatamente, il sisma accadde quando le scuole non erano in uso, ma se fossero state occupate avremmo avuto una grande perdita di vite umane. La protesta che seguì a quest'evento indusse lo Stato della California ad adottare alcune delle prime norme di costruzione antisismica (la famosa Field Act del 1934). Tuttavia, il problema persiste altrove: uno studio, compiuto nel 1995, del rischio sismico nell'area metropolitana di Boston, Massachusetts, ha indicato gli edifici scolastici tra le strutture sismicamente più vulnerabili, soprattutto per il fatto che essi normalmente contengono un gran numero di persone.

Nel 1966, 116 bambini morirono e 29 furono feriti ad Aberfan, un piccolo paese di minatori nel Galles meridionale. Erano alunni di due scuole, le quali furono parzialmente distrutte da una colata di fango che avvenne alle 9 e 15 di mattina di un giorno feriale e li travolse nelle sale di assemblea.

Nel 1986 a San Salvador in America latina alcuni bambini furono schiacciati sotto i banchi nel crollo della loro scuola durante un forte sisma. Ancora, nel 1995 un terremoto che colpì il Cairo provocò decine di morti tra gli alunni delle scuole quando questi cercarono di scappare fuori in condizioni di estremo pericolo, panico e caos prima della fine dello scuotimento. Tutte queste tragedie avrebbero potuto essere evitate con una pianificazione migliore e una più accurata gestione dell'emergenza.

Qualsiasi sia il tipo di pericolo che prevale nell'area locale, le scuole richiedono una protezione speciale, sia in termini di misure strutturali che per quanto riguarda la pianificazione atta a proteggere alunni e staff nel momento del disastro.

Le seguenti riflessioni derivano anche dall'aver partecipato ad un progetto che aveva come scopo il miglioramento della pianificazione dell'emergenza in cinque licei ubicati nelle montagne Berkshire del Massachusetts occidentale (USA). Quest'area è sottoposta ad un altissimo rischio di tromba d'aria, e anche a pericoli di terremoti, alluvioni, incendi, tempeste di ghiaccio, bufere di neve, e rilascio di materiali tossici. Il progetto ha rivelato che la pianificazione dell'emergenza nelle scuole è un problema ben più complesso di quel che si pensasse.

Se un'area è minacciata da pericoli ben conosciuti, particolare attenzione deve essere prestata all'allestimento di piani di evacuazione delle scuole. A breve termine l'evacuazione rimane il metodo non‑strutturale più efficace per assicurare l'incolumità degli alunni e dello staff. Per assicurare che essa funzioni e che non sia fonte di ulteriori problemi, non solo è necessario pianificarla accuratamente ma è fondamentale un programma di frequenti esercitazioni.

Sotto alcuni profili lo sviluppo di un piano di emergenza per una scuola è un microcosmo della pianificazione del disastro in senso più generale. Infatti, dove è possibile, il risultante piano dovrebbe essere integrato con i piani atti a coordinare l'emergenza al livello dell'intero comune o di un'altra area locale, soprattutto perché in un'emergenza è necessario che un supporto pervenga da fuori dei confini della scuola.

Il processo di pianificazione comincia con l'accertamento dei pericoli che minacciano la scuola e i suoi dintorni. Quest'informazione viene trasformata in uno scenario per descrivere l'impatto del fenomeno pericoloso e poi viene elaborato uno scenario della risposta all'emergenza progettata in modo tale da ridurre il suo impatto umano.

Se più di un tipo, o di una fonte, di pericolo minaccia l'area, potrebbe essere necessario l'allestimento di scenari multipli, i quali, comunque, avrebbero sicuramente molti elementi in comune. Ad esempio, potrebbe essere opportuno evacuare un edificio scolastico tramite un particolare percorso nel caso di un terremoto o un incendio ma per via di un'altro quando l'adiacente fiume minaccia allagamenti. Come nel caso della pianificazione di emergenza in genere, il piano dovrebbe affrontare non soltanto il rischio dominante ma tutti i pericoli significativi in modo da poter ottenere economie di scala.

Lo scenario di pericolosità dovrebbe indicare i possibili modi in cui si ipotizza che un disastro possa colpire la scuola, con riferimento anche ai rischi di impatto secondario, come un incendio che segue a un terremoto, oppure il crollo di una struttura danneggiata in precedenza da un sisma. Lo scenario di risposta dovrebbe prendere in considerazione la difficoltà del mantenimento della sicurezza durante l'intervento che segue immediatamente l'impatto. Ad esempio: avendo deciso di evacuare la scuola e raggruppare gli alunni in un spazio verde all'esterno, possono esistere dei rischi come essere folgorati da linee elettriche cadute o essere schiacciati dalla caduta di alberi? La via di uscita dall'edificio potrebbe essere cosparsa di frantumi di vetro o di macerie?

Valgono molto le più semplici precauzioni nelle aule e lungo i corridoi. Zaini, libri e indumenti dovrebbero essere depositati di regola contro i muri o in altri spazi riservati e non tra i banchi, dove essi potrebbero impedire l'evacuazione rapida. Delle frecce colorate aiuteranno a guidare i bambini all'uscita nel caso che essi siano disorientati o confusi dalla paura. Dove necessario, mobili, suppellettili e attrezzi dovrebbero essere fissati ai muri in modo tale da non cadere sulle persone e non bloccare le vie di uscita.

Uno scenario è una costruzione ipotetica di una probabile futura realtà e come tale non può essere verificato fino a che gli eventi che esso prefigura accadono veramente. Data questa incertezza, alcuni dilemmi seri possono sorgere nella costruzione dello scenario di risposta all'impatto. Ad esempio, la American Rescue Organization (http://www.amerrescue.org/), in base a numerose esperienze in passato, consiglia di non ripararsi sotto i banchi quando accade il terremoto, a meno che questi non siano molto solidi e resistenti. A livello mondiale, molti bambini sono stati schiacciati per la caduta di travi e muri sulle scrivanie sotto le quali hanno cercato di ripararsi dal terremoto. Ma quale altra soluzione esiste? La ARO consiglia di rannicchiarsi negli angoli tra il pavimento e il muro, dato che anche il crollo totale della struttura lascerebbe circa il 15% di spazi vuoti, che molto probabilmente sarebbero concentrati in quei punti. D'altra mano, il riparo dei bambini piccoli sotto le scrivanie evita che essi possano correre in giro e rischiare di ferirsi.

Bisogna prendere in considerazione il fatto che l'evacuazione di una scuola può richiedere due rifugi nel caso che non sia consigliabile rientrare l'edificio dopo l'impatto. Il primo di questi sarà probabilmente uno spazio verde, un campo sportivo o un posteggio di automobili dove i bambini e i loro insegnanti possano radunarsi per verificare le presenze. Nell'eventualità di un attesa che potrebbe essere lunga, questo spazio necessiterebbe di servizi igienici, quando è possibile fornirli.

Il secondo rifugio dovrebbe essere un luogo dove bambini possano essere trattenuti in sicurezza prima di essere consegnati ai loro genitori. È generalmente riconosciuto che il processo di evacuazione debba condurre gli evacuati in luoghi progressivamente più sicuri e non attraverso le aree di maggiore pericolo. Nel piano è quindi necessario controllare che i percorsi scelti per l'evacuazione non siano soggetti a pericoli e determinare quali siano i mezzi di trasporto o di movimento più sicuri (sarà rischioso, ad esempio, portare i bambini al rifugio negli scuolabus?). È anche essenziale assicurare un'adeguata separazione tra il percorso degli evacuati e quello dei veicoli di emergenza che arriveranno alla scuola (vedi i punti 6 e 11 nell'allegata tabella).

Il problema della custodia (in loco parentis) può essere particolarmente difficile se gli edifici della scuola vengono giudicati inagibili per la durata del periodo immediatamente dopo l'impatto. I bambini potrebbero avere bisogno di essere calmati, o almeno di essere tenuti in ordine. Essi avrebbero bisogno di protezione anche contro i rischi che rimangono dopo il primo impatto, di essere tenuti occupati e di essere continuamente rassicurati affinché non arrivino i propri genitori.

La Federal Emergency Management Agency statunitense consiglia di dare a ciascun allievo evacuato da una scuola un distintivo che riporta il suo nome, indirizzo e numeri telefonici, ed anche gli estremi della scuola, la classe che frequenta e l'insegnante responsabile. Tali distintivi sarebbero da preparare in anticipo e da distribuire dopo l'evacuazione.

È ovviamente essenziale che gli insegnanti portino con sé i registri di classe quando conducono i loro allievi fuori dalla scuola e che accertino le presenze una volta arrivati. Inoltre, i bambini non devono essere spediti a casa indiscriminatamente senza essere certi della presenza di un genitore o qualcuno che può accoglierli. In un recente terremoto in California è stato stimato che, di 12.000 bambini evacuati dalle scuole, ben 6.500 sarebbero stati possibilmente in pericolo se fossero stati spediti a casa senza gli appositi accertamenti.

La cooperazione dei genitori nel processo di pianificazione dell'emergenza è davvero preziosa. Per primo, i bambini dovrebbero essere rilasciati soltanto ai genitori o membri della famiglia che sono autorizzati a prenderli. Altre persone, come baby sitter, tate o collaboratrici domestiche, dovrebbero essere muniti di un'autorizzazione scritta e approvata dalle autorità scolastiche e verificate dagli insegnanti.

In secondo luogo, la piena partecipazione dei genitori nel piano di emergenza è l'unico modo per evitare il totale sovraccarico delle linee telefoniche della scuola e un massiccio ingorgo di traffico ai suoi ingressi: in un periodo critico come quello che segue all'impatto sarà necessario tenere sia le linee telefoniche che le vie di accesso libere per il traffico di emergenza. Quindi, nell'allestimento del piano, bisogna raccomandare ai genitori (per lettera) di non telefonare alla scuola e di non venire direttamente in macchina per la durata di determinati periodi se si ritiene che tali azioni potrebbero compromettere la gestione dell'emergenza (sperando che gli stessi genitori seguano le regole date).

Il piano di emergenza dovrebbe includere alcune procedure per tenere conto di quando, dove e a quale membro della sua famiglia ciascun bambino è stato rilasciato dopo l'evacuazione. Nel caso in cui è previsto un impatto, forse molto localizzato, che non sarà immediatamente riconoscibile fuori degli immediati pressi della scuola, sarà necessario contattare i genitori per telefono anche quando questo non può essere fatto dagli uffici della scuola. Quindi può essere necessario che la segretaria della scuola lasci l'edificio portando con sé un telefono cellulare e un elenco dei numeri telefonici dei genitori degli alunni evacuati. In qualsiasi caso il piano potrebbe coinvolgere alcuni genitori, che vivono o lavorano nelle vicinanze della scuola, come aiutanti per la durata dell'emergenza.

In tutte le scuole tranne quelle più piccole ci sarà una divisione dei ruoli durante l'emergenza. Il preside e gli insegnanti prenderanno, ovviamente, la responsabilità primaria per l'evacuazione, ma sarà molto importante che qualcuno sia competente in pronto soccorso. Probabilmente anche i conducenti degli scuolabus saranno da indicare come operatori essenziali.

Quando il disastro avviene, è molto probabile che vari lavoratori di emergenza, come poliziotti, vigili del fuoco, membri di equipaggi medici, o volontari della protezione civile, arriveranno in fretta alla scuola. Il piano dovrebbe specificare le forme di collaborazione tra lo staff della scuola e i professionisti pervenuti dall'esterno, ad esempio per controllare che nessun bambino sia rimasto dentro gli edifici evacuati, o per valutare i possibili danni strutturali. I piani di evacuazione della scuola dovrebbero essere depositati con le autorità locali di protezione civile e dovrebbero formare una parte integrale del progetto per gestire l'emergenza a livello locale.

I migliori piani di emergenza per le scuole richiedono un'adeguata motivazione da parte degli insegnanti. Questi devono essere incoraggiati a prendere sul serio la preparazione per l'emergenza e a giocare un ruolo positivo di comando sia nella pianificazione che nella seguente esercitazione. È necessario mettere in prova i piani di evacuazione ad intervalli regolari, magari una volta ogni tre mesi: negli intervalli tra un'esercitazione e la prossima le condizioni possono cambiare, possono arrivare nuovi alunni o insegnanti, e le procedure potrebbero essere dimenticate.

Secondo alcuni studi sociologici del comportamento di persone evacuate, durante l'emergenza esse fanno quello che sono state addestrate a fare, dato che manca il tempo e le informazioni necessarie per decidere razionalmente quale azione è meglio prendere. È perciò molto importante rinnovare l'addestramento regolarmente e rigorosamente. Un adeguato sostegno da parte degli insegnanti è la chiave a questo processo e al suo successo.

Nonostante la pianificazione dell'evacuazione per le scuole sia un processo piuttosto complesso, è estremamente importante e fondamentale, non soltanto per la sua capacità di salvare le vite di bambini e insegnanti, ma anche perché può avere un'effetto molto più grande di quello di una semplice procedura di emergenza. Nella costante battaglia per migliorare la sicurezza pubblica contro i disastri i bambini sono catalizzatori. Essi sono spesso più ricettivi alle idee nuove rispetto agli adulti e quindi sono un canale ideale per introdurre e portare alle loro famiglie i concetti di sicurezza e l'idea di partecipare nella protezione civile. Il buon esempio che la scuola offre può avere l'effetto di abituare le famiglie che i cittadini hanno un ruolo da giocare nella prevenzione del disastro.

L'argomento richiederebbe molto più spazio, tuttavia per il suo approfondimento ulteriori informazioni possono essere trovate nell'allegato elenco di pubblicazioni internazionali sulla prevenzione del disastro nelle scuole e sui bambini nelle emergenze: alcune di queste opere possono essere acquistate per via Internet, come indicato nell'elenco. Sull'argomento una risorsa molto utile è il sito web della U.S. Federal Emergency Management Agency (http://www.fema.gov/), il quale contiene, come elencato, diversi manuale di istruzione per valutare i rischi e organizzare la protezione civile nelle scuole. Infine, l'allegata tabella offre anche alcuni lineamenti procedurali per progettare l'evacuazione delle scuole. Sebbene l'intera procedura possa sembrare un "consiglio di perfezione", è da utilizzare come una serie di proposte di procedure da adattare o modificare secondo le condizioni e le possibilità locali.

Un mondo di profughi



La guerra in Jugoslavia e la seguente crisi dei profughi in Albania e Macedonia hanno portato la comunità italiana di protezione civile in una nuova fase di operazioni, un avvenimento che fino a marzo del 1999 molti esponenti del campo non aspettavano, malgrado che la gestione dei profughi arrivati in Italia fosse divenuta un lavoro consueto per molti soccorritori. Nonostante le difficili condizioni dovute alle operazioni svolte all'estero, inoltre in un paese come l'Albania che non è ben dotato di infrastrutture e persino in posti non lontano dal fronte della guerra, l'emergenza è stata affrontata con serietà, professionalità e quella umanità per la quale gli italiani sono giustamente famosi. Per molti soccorritori, il lavoro in Albania ha rappresentato un'esperienza formativa, e la crisi del Kosovo è stata sicuramente un evento che ha esteso lo scopo e la gamma di attività della protezione civile italiana, nonché occasione per testare le sue strutture operative e la sua versatilità nelle crisi.

Chiaramente, nel mondo moderno la migrazione internazionale dei profughi non è una novità, dato che dal 1945 più di 150 guerre e molti disastri naturali hanno creato un gran numero di spostamenti dei popoli del mondo. Malgrado il lavoro delle diverse centinaia di organizzazioni umanitarie che lavorano con i profughi, a livello mondiale è molto difficile stimare il numero di persone che sono state cacciate dalle proprie terre e case. Se si includono, non soltanto i profughi internazionali, ma anche i gruppi di persone perseguitati ma che non hanno varcato un confine nazionale (i cosiddetti internally displaced persons, IDP), la cifra globale potrebbe arrivare ad oltre 20 milioni di persone.

Un profugo è una persona che, per motivi politici, religiosi, etnici o altro, è stato costretto con minacce o violenza fisica a lasciare la propria terra di appartenenza. Negli ultimi 50 anni il problema è cresciuto molto, ma purtroppo la legislazione internazionale che offre una definizione legale del termine 'profugo' e le regole per la tutela del medesimo non è evoluta quanto il problema.

La Convenzione Relativa allo Stato dei Profughi fu adottata dall'ONU nel 1951 ed è ancora in vigore, sebbene modificata da un Protocollo del 1967 e chiarita da una Dichiarazione sull'Asilo Territoriale del 1967 e una Dichiarazione sui Diritti Umani dei rifugiati che l'Assemblea Generale dell'ONU ha adottato nel 1985. La Convenzione del 1951 si riferisce esclusivamente a persone diventate profughi in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Solo 16 anni dopo, quando il Protocollo sui profughi fa adottato, fu estesa la definizione a tutte le vittime della persecuzione che hanno varcato i confini della propria patria.

La formula di tutela dei diritti umani che risulta da questi strumenti non è particolarmente adatta alle condizioni del profugo moderno: essa fu elaborata per tutelare piccoli gruppi di persone perseguitate per essere dissidenti (storicamente, queste sono state per lo meno membri relativamente benestanti della borghesia dei propri paesi). Invece la legislazione non è ben formulata per tutelare grandi numeri di persone fuggite dalla cosiddetta Apulizia etnica@, un fatto piuttosto singolare dato che tali atrocità non sono per niente nuove nella storia del mondo (alcuni autori considerano persino la conquista del West americano e dell'America Latina dei fenomeni analoghi alle 'pulizie etniche' dei nostri giorni).

Per di più, la definizione legale di un profugo non è applicabile alle Internally displaced persons che sono state costrette a fuggire dalle proprie case ma che non hanno varcato il confine di stato. Eppure tante di queste sono profughi nel pieno senso della parola, soprattutto dove una guerra ha causato la frammentazione di una nazione in una serie di territori separati. Inoltre, la definizione esclude le vittime di carestia, di disastro naturale e di gravi privazioni economiche, anche se in realtà ciascuno di questi fattori può essere un motivo pressante per lasciare la propria casa al pari, ad esempio, della persecuzione religiosa.

Le varie convenzioni, protocolli e dichiarazioni non chiariscono come si deve definire la 'paura di essere perseguitato', la quale è la motivazione più riconosciuta per concedere lo stato di profugo a chi non vuole tornare in patria. Non ci sono neanche provvedimenti speciali per le vittime delle guerre, le quali ormai costituiscono la maggior parte dei profughi esistenti nel mondo. Mentre le Dichiarazioni sui diritti umani elaborate dall'ONU specificano chiaramente quali sono i diritti fondamentali di tutti gli esseri umani (la Dichiarazione del 1948) e di persone che si trovano fuori del paese di origine o di nazionalità (la Dichiarazione del 1985), questi accordi non hanno lo stato di leggi e non possono essere imposte legalmente con la forza.

Malgrado queste inadeguatezze, la tutela dei profughi ha subito una notevole evoluzione negli ultimi decenni. Il principale ente di coordinamento, l'Alta Commissione per i Profughi dell'ONU (United Nations High Commission for Refugees, UNHCR) non fornisce aiuto direttamente alle popolazioni tutelate ma invece solecita e coordina l'assistenza proveniente da terzi e, ovunque possibile, negozia una soluzione al problema dei profughi. L'obiettivo principale è di organizzare il rimpatrio volontario dei profughi al luogo di origine in condizioni di pace e di adeguata sicurezza. Se questi requisiti non possono essere garantiti, la UNHCR cerca di insediare i profughi nel paese di arrivo oppure in una terza nazione che è disposta ad ospitarli.

Con il passare degli anni i paesi dell'occidente sono diventati sempre meno disposti ad accettare nuovi profughi sul proprio territorio e preferiscono donare denaro o materiali che possono contribuire a rimpatriare i profughi o ad insediarli altrove. L'Alta Commissione dell'ONU ha avuto un notevole successo nella sistemazione dei profughi, ma, ciò nonostante, può lavorare in un particolare paese soltanto se ha il pieno e esplicito permesso del governo nazionale, il quale può restringere il mandato dell'ONU a certe operazioni e vietare la possibilità di svolgerne altre.

È spesso vero che le organizzazioni non governative (conosciute in inglese come NGO) abbiano più libertà di movimento rispetto agli enti dell'ONU. Nel passato esse hanno commesso errori, ma le maggiori NGO hanno anche imparate le apposite lezioni. Una di queste è che la soluzione delle grosse crisi di profughi non è mai immediata, ma richiede parecchio tempo. Infatti, tra 4 e 6 mesi sono solitamente necessari per svolgere tutte le operazioni di acquisto, trasporto, trasloco, immagazzinamento e distribuzione di viveri e altri materiali destinati a mantenere grosse popolazioni di profughi a lungo termine. In passato, i ritardi sono risultati fatali per un elevato numero di profughi. Ad esempio, nel 1978 ben 10.000 di 200.000 profughi birmani sono morti in Bangladesh a causa della scarsita di aiuti alimentari offerti dalla comunità internazionale, la quale aveva calcolato male le esigenze.

In seguito a tali problemi, gli enti di soccorso umanitario hanno imparato a ricercare e riconoscere i segni premonitori di crisi nascenti tra popolazioni di profughi. A questo proposito, uno degli aspetti più sfortunati della situazione dei profughi kosovari era l'assenza di segni premonitori della crisi e quindi di una preparazione da parte delle agenzie umanitarie per accogliere immediatamente i primi gruppi. Comunque, in ricompenso, la crisi del Kosovo è stata un evento ad alto profilo internazionale e quindi molti aiuti sono stati forniti velocemente. Ma nel momento in cui si scrive questo saggio (giugno 1999) non è ancora chiaro se gli aiuti saranno ancora sufficienti e in alcuni casi purtroppo sembra che non lo siano.

La sistemazione a lungo termine dei profughi non è strettamente un problema di protezione civile ma piuttosto una questione di aiuti umanitari (anche se la differenza non è sempre netta). L'abilità della comunità internazionale di fornire assistenza varia con il relativo grado di attenzione dedicata ad ogni nuova crisi o situazione che avviene nel mondo. Inoltre, la grandezza, e la gravità, di un problema di profughi varia con le condizioni militari e politiche che prevalgono in ciascun momento, le quali possono creare nuove ondate di instabilità praticamente nell'arco di un solo giorno.

Con il passare degli anni la gestione dei profughi è divenuta un mestiere ben esercitato. Il maestro nella progettazione dei campi di profughi era un texano, il Dr Fred Cuny, il quale però fu brutalmente assassinato nel 1995 durante una missione umanitaria in Cecenia. Cuny progettava i campi per minimizzare i rischi di incendio e di trasmissione delle malattie, ottimizzare la coesione sociale e permettere l'espansione dei campi senza compromettere l'erogazione dei servizi. È importante ricordare che l'assenza di qualsiasi elemento fondamentale del campo può compromettere la salute e la sicurezza dei residenti. Quindi, i punti di erogazione dell'acqua, le docce, le latrine, le cliniche, le mense e le discariche non devono mancare e dovrebbero essere progettati per assicurare la massima funzionalità e accessibilità. Una seconda osservazione importante è che alcune forme di coesione e sopravvivenza sociale emergeranno tra i profughi, maggiormente là dove la progettazione e la gestione dei campi sono atte a facilitarle.

I profughi sono gruppi di persone che si trovano al fondo della scala sociale e che provengono da una società gravemente danneggiata. Ma data la possibilità, essi cominceranno a ritrovare la propria dignità umana e svilupperanno o ritroveranno meccanismi di sostegno mutuo e di supporto sociale. I campi ben progettati favoriscono questi meccanismi e nello stesso tempo minimizzano i rischi di sovraffollamento e di deterioramento delle condizioni sanitari.

Quando arriva in un campo per la prima volta un profugo può essere ferito, affamato o malato. Da quel momento in poi il suo stato di salute dipenderà, non soltanto dalla sua condizione all'arrivo, ma anche dalla qualità del cibo e della cura medica che gli viene offerta mentre risiede nel campo. Il massimo esperto su questi argomenti è il Dr John Seaman del Save the Children Fund di Londra. Egli nota che nei campi più grossi e nelle situazioni più caotiche è facile sbagliare lo stato di salute dei profughi e quindi ignorare una crisi in via di sviluppo. La cattiva gestione della salute e della nutrizione dei profughi può avere come risultato un aumento di mortalità, soprattutto di bambini e anziani.

Tra i bambini una nutrizione insufficiente può portare a deficit di crescita e a una maggiore suscettibilità a malattie, anche fatali. Il Dr Seaman fu uno dei pionieri dell'antropometria, una tecnica atta a misurare le caratteristiche fisiche (altezza, circonferenza del braccio e della cinta, peso, ecc.) dei bambini rispetto all'età del soggetto con lo scopo di stimare l'entità di crescita e metterla in rapporto con l'alimentazione del soggetto. I campi molto grossi (alcuni in Asia contengono oltre 200.000 residenti) richiedono una ripetuta indagine statistica per stimare lo stato di salute dei profughi, dato che questi sono troppo numerosi per visitare ciascuno. La salute dei bambini piccoli potrebbe essere, non soltanto fragile, ma anche l'indicatore del livello generale di salute dei residenti di un campo.

I successi e i fallimenti nell'erogazione degli aiuti ai profughi hanno fornito alle agenzie di soccorso un ricco repertorio di esperienze. Molte cose sono state riportate nella rivista Disasters, la quale fu fondata nel 1977 da un gruppo di studiosi inglesi, il London Technical Group. Attualmente è curata dal Governo britannico tramite l'Istituto per lo Sviluppo dei Paesi Esteri. Uno degli obiettivi di Disasters è di migliorare le pratiche di gestione dei profughi. A scopo di potenziare la conoscenza di questo, nel 1988 si è inaugurata un'altra rivista, il Journal of Refugee Studies, con sede presso l'Università di Oxford in Inghilterra.

Malgrado la loro esperienza, i fornitori di aiuti internazionali si trovano davanti ad un grande dilemma causato dall'avvenimento delle cosiddette 'emergenze complesse'. In queste, la sorte dei profughi è legata al collasso dell'ordine sociale, economico, politico e militare, spesso complicato da disastri naturali come alluvioni, siccità, terremoti, come avviene ripetutamente, ad esempio, in Africa Centrale. A parte la difficoltà di gestire situazioni in cui i meccanismi di base del mantenimento della vita e il tessuto sociale sono ceduti, le organizzazioni internazionali hanno dovuto lottare per mantenere la loro neutralità davanti a grosse violazioni dei diritti umani, spesso compiute da vari gruppi che partecipano in un dato conflitto. I convogli di aiuti umanitari sono stati attaccati, i veicoli sono stati dirottati, e gli aiuti destinati ai profughi sono stati comandati, sotto la minaccia delle armi, da soldati.

La proporzione di civili tra le vittime delle guerre è salita da circa il 50% negli anni '40 a quasi l'85% in alcuni conflitti attuali. La maggioranza delle vittime civili sono donne e bambini e in alcuni casi gli stessi bambini costituiscono il 60% delle persone uccise. Quindi le agenzie di soccorso umanitario hanno cominciato a dibattere se, in verità, li conviene lavorare in condizioni di neutralità o, addirittura, se sia possibile mantenere queste. Le risposte non sono chiare, ma è comunque certo che gli aiuti umanitari non sono riusciti a prevenire le crisi di profughi; essi hanno soltanto migliorato i loro effetti peggiori.

A metà del 1999 il dilemma della neutralità non è stato ancora esplicitamente posto alle forze della protezione civile italiana che lavorano nei Balcani. Ma questa situazione potrebbe cambiare se, ad esempio, il conflitto fosse esportato verso i campi dei profughi situati al margine della Jugoslavia, o se i gruppi di profughi che arrivano oltre la frontiera fossero composti anche di serbi, non soltanto di kosovari di etnia albanese.

Piani provinciali di protezione civile--opportunità perse? o Per angusta ad Augustus



In Italia si ha spesso la sensazione che un piccolo cambiamento nei parametri che controllano una certa situazione avrebbe l'effetto di migliorarla parecchio, ma che esistano ostacoli culturali e amministrativi che rendono questo cambiamento difficile o addirittura impossibile. Tale sembra proprio il caso con le nuove iniziative atte a creare piani provinciali di protezione civile. Questo articolo cercherà di spiegare il perché.

I cambiamenti nell'assetto della protezione civile introdotti dalla L. 112 e dalla Riforma costituzionale non hanno cancellato tutta l'ambiguità che ha reso spesso perplessi gli amministratori regionali e provinciali negli ultimi 3 o 4 anni. Anche se il compito di coordinare i piani comunali di emergenza è passato dalle prefetture alle province, al momento di scrivere, sembra ancora incerto se i nuovi Comitati Provinciali di Protezione Civile sostituiranno, assorbiranno, o affiancheranno i CCS del passato, e quale rapporto avranno con i COM locali e, infatti, con l'intera struttura allestita dal Metodo Augustus.

Cominciando con quest'ultimo, l'Augustus è nato da un'interpretazione innovativa ma poco ortodossa del ruolo di un governo federale nel sostenere le operazioni di emergenza dei suoi stati costituenti e delle loro singole città. In questa forma non si trattava di un governo centrale che impone l'organizzazione della protezione civile su livelli successivamente più locali dell'amministrazione pubblica, ma semplicemente di un mezzo di sostegno delle iniziative prese da questi ultimi. Il prototipo fu il sistema di gestione delle emergenze del governo federale statunitense, con le sue 12 funzioni di supporto, un sistema in uso dagli anni '80 in poi.

La Repubblica Italiana si trova in mezzo ad una grande iniziativa di devoluzione, la quale, sfortunatamente, è stata più volte confusa con il processo della creazione di una federazione. Dati i rischi di frammentazione e balcanizzazione associati all'opzione federale, sembra improbabile che il processo politico andrà oltre la delega di certi poteri alle regioni e alle province. Esiste una grande differenza di bilancio del potere tra una repubblica federale e una monolitica con tendenze federative. E' importante ricordare questo fatto quando si tratta di adattare modelli organizzativi di protezione civile.

Il Metodo Augustus ha avuto il pregio di stimolare le preparazioni per situazioni di emergenza a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica. Esso ha costituito una forza di inestimabile valore atta a standardizzare e coordinare i lavori di ben 8500 enti pubblici. Ma sembra che le parti superiori della piramide siano diventate sproporzionalmente grandi rispetto alla base. E' giusto che l'iniziativa si diffonda sempre dai livelli superiori del governo verso quelli più bassi? Oppure, malgrado l'indifferenza e l'inerzia comunemente presenti nei municipi, sarebbe possibile, ed anche desiderabile, costruire il sistema di protezione civile dalla base in su?

L'ultima volta che ho osservato una simulazione nazionale di emergenza in Italia sono stato colpito dal panorama di ben 37 funzioni di supporto a lavoro tra 3 centri operativi (14 a quello del DPC, 14 al CCS e 9 al COC). Ci deve essere un modo più semplice per dirigere l'emergenza.

In questi casi, sarebbe utile introdurre il concetto di Sistema di Comando dell'Incidente (SCI). Questo fu inventato in seguito ad un giorno infernale nell'estate del 1970 quando lo stato di California non riuscì a dirigere bene le operazioni di spegnimento di quasi 200 incendi boschivi, che erano scoppiati insieme in condizioni meteorologiche eccezionalmente favorevole a questo tipo di evento. Le carenze organizzative furono dovute soprattutto a un sistema di comando monolitico e >verticale' non adatto a dirigere tanti interventi separati nello stesso momento. Il nuovo sistema, molto meno gerarchico, è stato sviluppato al punto che un largo e regolare uso venga fatto in molti paesi del mondo. SCI è alla base della pianificazione e della gestione dell'emergenza nella mia stessa Università in America.

In breve, SCI è basato su un processo di direzione dal sito dell'emergenza, magari da un posto avanzato di comando, con il supporto logistico del centro operativo ubicato, generalmente, altrove. La bellezza dello SCI risiede nella sua semplicità e flessibilità. Quando esse raggiungono il sito delle operazioni di emergenza, nuove risorse di manodopera e attrezzi vengono successivamente integrati nella struttura di comando stabilità sin dall'inizio al sito, tramite una serie di regole per la delega di competenze o la formazione di nuclei operativi per compiere particolari attività di intervento tecnico. Il Comandante dell'incidente ha più un ruolo di coordinamento che di comando in senso tradizionale. Il suo lavoro viene particolarmente facilitato con l'impiego dei moderni mezzi di comunicazione e della telematica.

Mentre è di utilità limitata nelle grosse emergenze nazionali, o per lo meno dovrebbe essere combinato con una struttura monolitica di comando, lo SCI sta diventando di regola nel mondo occidentale per la gestione di emergenze dei tipi 'A' e 'B' (rispetto alle definizioni fornite dall'Art. 2 della L.225/1992). Non c'è dubbio che sarebbe utile introdurlo in Italia: infatti, alcuni corpi dei Vigili del Fuoco già usano una versione modificata, sebbene il sistema non abbia ancora una diffusione più generale. Alcuni casi specifici sottolineano l'utilità di un tale approccio: ad esempio, un rapporto recente sulle operazioni di soccorso dopo uno scontro di Pullman a Cesena, con 27 feriti da estrarre dalle lamiere, indicavano carenze di integrazione tra volontari, medici e pompieri. Era un classico problema che lo SCI avrebbe potuto risolvere.

A parte il possibile bisogno di riforma dei processi di intervento tecnico sul sito durante l'emergenza, la transizione dal controllo prefetturale a quello provinciale offre una grande opportunità per risistemare i centri operativi più grandi. Durante una recente tavola rotonda alla quale ero presente, alcuni rappresentanti di amministrazioni regionali e provinciali hanno mostrato una certa perplessità riguardo al ruolo residuo nell'emergenza dei prefetti e delle prefetture, e rispetto a come integrare centri operativi, nuclei di crisi e funzioni di supporto nelle nuove strutture della protezione civile provinciale. Eppure la transizione da CCS a Comitato Provinciale offre un'opportunità perfetta di effettuare il tipo di innovazione che subito porterebbe l'Italia all'avanguardia nel settore. Se gli stessi principi di semplicità e flessibilità che hanno dato luogo allo SCI fossero applicati sistematicamente alla formazione del Comitato Operativo Provinciale (assumendo che quest'organo abbia un ruolo nelle emergenza, una questione ancora da chiarire in alcuni casi), sarebbe davvero uno strumento formidabile di coordinamento. Se, senza perdere il suo ordine fondamentale, potesse essere reso adattabile, in termini di dimensioni e struttura, alle circostanze che cambiano durante l'emergenza, potrebbe essere un perfetto complemento ad uno SCI progettato per gli interventi sul sito.

Seguire gli sviluppi nella protezione civile italiana dal punto di vista di un osservatore esterno, addirittura uno straniero, conferisce la benedizione di una valutazione indipendente ma la maledizione di rischiare di interpretare male quello che si vede. Comunque, gli ostacoli mi sembrano troppo chiari per non essere riconosciuti. Il principale impedimento culturale è l'individualismo, sia personale che istituzionale. Quello organizzazionale risente il fatto che molti aspetti della vita in Italia sono regolati da leggi, mentre in altri paese è sufficiente l'applicazione del buon senso comune. Il risultato è una struttura di protezione civile che ha bisogno di una cura dimagrante nei suoi livelli intermedi. E' quasi come se Augustus Caesar avesse detto: "Più grave è l'emergenza, più complicate devono essere le strutture amministrative che comandano". Ciò nondimeno, stanno nascendo delle forze di snellimento: ad esempio, si aspetta il giorno in cui compilare il numero 112 metterà l'utente subito in contatto con l'intera scelta di servizi di emergenza. Spero che questa occasione sarà indicativa di tendenze più generali nella protezione civile italiana.

Nuove tendenze nella pianificazione e gestione dell'emergenza in Italia e nel mondo



Introduzione: il bisogno di migliorare la pianificazione e la gestione dei disastri

Negli anni recenti a livello mondiale l'impatto delle catastrofi è diventato sempre più profondo. Attualmente, succedono ogni anno circa 320 disastri, di cui due terzi sono di origine naturale e gli altri hanno una causa di origine tecnologica. All'incirca, 150.000 persone muoiano, il 94% di esse nei disastri naturali, e circa 150 milioni di persone vengono colpiti direttamente da calamità. Secondo una recente stima, dal 1950 al 2000 il numero di catastrofi naturali e tecnologici è aumentato del 250%, il numero di disastri con vittime del 500%, il numero di persone colpite del 500% e il costo totale di tali eventi del 1500% (le perdite assicurate sono aumentate addirittura del 1640%). Comunque, i miglioramenti dei processi di preavviso, di evacuazione, di riduzione dei rischi e di preparazione per gli eventi hanno tenuto la tasse di mortalità piuttosto stabile: anche se più disastri hanno causato vittime, meno persone sono morte, mediamente, in ciascun evento.

Malgrado questo quadro, in termini di danni e di perdite, l'entità del disastro più costoso è aumentato di un ordine di magnitudo ogni decennio. Cosi, il grande terremoto Hanshin-Kobe in Giappone nel 1995 è costato US$131,5 miliardi, ben 12 volte più del sisma di Loma Prieta avvenuto nella California nel 1989. Ma le previsioni per una ripetizione del terremoto che colpì l'area metropolitana di Tokio nel 1923 da delle stime di costo intorno ai US$2.800 miliardi.

In Italia negli anni recenti la mortalità è stata maggiormente ristretta a bassi numeri di persone ammazzate da alluvioni e frane. Complessivamente nel periodo 1971-2000, i disastri hanno ammazzato quasi 200 Italiani all'anno e colpito più di 75.000. Comunque, dal 1915 e il disastro di Avvezzano, nessun terremoto è avvenuto con epicentro nei pressi di un grosso centro di popolazione. Però, con circa 700.000 persone a rischio di eventi sismici e vulcanici nella Sicilia orientale e un simile numero vulnerabile sui fianchi del Monte Vesuvio, il potenziale per un disastro nazionale di grossissime proporzioni rimane alto. Infatti, il rischio sismico, che nel ventesimo secolo ha preso le vite di 128.000 italiani, interessa il 40% della popolazione e più di un terzo dei comuni.[1] Perciò, a livello mondiale l'Italia occupa il quarto posto per magnitudo dei disastri sismici.

Come altrove, così in Italia, l'entità del costo dei disastri è in costante aumento. Ad esempio, le stime dei costi delle alluvioni Piemontesi erano almeno il 60% di quelli del terremoto Irpino di 16 anni prima, malgrado che il sisma Campano-Lucano abbia interessato una zona più vasta, in modo più profondo, facendo più vittime.

Esistono vari motivi per queste tendenze alla crescita delle perdite. In questo momento è troppo presto per sostenere con convinzione che il cambiamento del clima e l'innalzamento del livello del mare stiano già causando più disastri, oppure disastri più profondi, ad esempio provocando tempeste più intense, alluvioni più imponenti e maggiori ondate di freddo e di neve, anche se in fine questo potrebbe essere il caso. Le principali cause sono, quindi, legate al sistema socio-economico.[2] Nelle aree di particolare rischio, il costante aumento della popolazione e della sua mobilità, e le maggiori concentrazioni di capitale fisso stanno mettendo a rischio più persone e maggiori ammucchiamenti di beni. Per di più, le stime più recenti dei costi dei disastri sono state molto più sofisticate che nel passato più remoto. Ormai, esse prendono in considerazione le coste nascoste e esterne degli impatti, come il valore delle vendite che vengono bloccate a causa dell'interruzione della produzione o della distribuzione dei merci. Nello stesso tempo, il costante potenziamento dei legami tra i vari sistemi di produzione, distribuzione e finanziamento ha reso questi più vulnerabile all'interruzione da catastrofi di varia natura.

Mentre, a livello mondiale, le iniziative per ridurre i rischi sono riusciti a bloccare l'aumento della perdita di vite (maggiormente tramite alcuni miglioramenti delle tecniche di costruzione edile e dei processi di preavviso e di evacuazione), esse non sono ancora riuscite ad arrestare l'inesorabile aumento dei costi. In parte questa situazione risulta dall'inadeguatezza delle fonti del capitale usate per finanziare la mitigazione; in parte le forze del mercato non sono state efficaci simultaneamente a garantire la libertà dell'individuo e scoraggiarlo a prendere rischi eccessivi.[3]

Mentre la riduzione dei rischi di calamità naturale quasi sempre da luogo a rapporti costi-benefici positivi (cioè, si risparmia più nei danni non avvenuti che si spende nelle opere di prevenzione), questo ha raramente indotto le autorità civili a potenziare le opere di mitigazione. Infatti, in molti casi gli appositi dati non vengono compilati. Purtroppo, le restrizioni fiscali hanno dato luogo ad una tendenza a risparmiare denaro evitando o riducendo le preparazioni per il prossimo disastro. Ad esempio, raramente è la devoluzione dei poteri da un governo centrale a quelli regionali, provinciali e locale accompagnata da un finanziamento sufficiente per compiere le opere necessarie. nello stesso tempo, le tentative a coinvolgere il settore privato nelle iniziative di prevenzione hanno avuto risultati misti. In genere, le compagnie private non sono disposte a prendere responsabilità per i rischi di perdite che non possono essere ben previste o sufficientemente compensate tramite guadagni e profitti.

Forse il campo in cui più benefici sono stati finora tratti dal coinvolgimento del settore privato nelle opere di mitigazione dei disastri e quello dell'assicurazione, nel quale c'è stata una crescita eccezionale nella copertura contro le catastrofi. A livello mondiale negli ultimi 10 anni, il rimborso assicurativo delle perdite sostenute nei disastri è cresciuto da meno del 10% a più del 16%.[4] Comunque, il settore dell'assicurazione contro i disastri denuncia notevoli problemi. Per primo, i rischi non sono ben distribuiti tra gli assicurati, un fatto che indica un certo livello di sussidiario di chi corre rischi più bassi rispetto a chi è più esposto, soprattutto perché i premi non possono essere sempre proporzionati ai livelli di rischio. Questo significa che l'assicurazione non può essere facilmente utilizzata per scoraggiare chi compra una polizza perché la sua proprietà è esposta a rischi elevatissimi. In secondo luogo, la copertura in questo settore non è sufficientemente comprensiva, i rischi non sono abbastanza coperti dagli investimenti e le fonti di capitale sono insufficienti.

L'esperienza del passato dimostra che in sé i disastri tendono a creare una domanda per il miglioramento della sicurezza pubblica. Negli Stati Uniti, ad esempio, la legislazione federale di base, la Robert T. Stafford Disaster Relief and Assistance Act del 1993, è stata promossa in seguito ad Uragano Andrew (del 1992), a quel punto il disastro più costoso nella storia del paese, e le peggiori alluvioni mai avvenute nel bacino Mississippi-Missouri (dell'estate 1993). A corto termine, il periodo che segue un disastro, oppure uno sciame di disastri, rappresenta un Afinestra di opportunità@ per migliorare la sicurezza pubblica. In questo intervallo di tempo la domanda da parte del pubblico per migliorare la sicurezza è alta, il sostegno delle apposite misure presente nell'arena politica, e i fondi per realizzare piani ed opere di mitigazione potrebbero essere disponibili.[5]

Finora, la 'finestra di opportunità' non ha impedito il numero di disastri e l'entità dei loro impatti di aumentare. Comunque, è probabile che nei prossimi 25 anni le perdite diventeranno così grosse che l'abilità della società e dell'economia mondiale di assorbirle diminuirà fino al punto che i governi dovranno istituire misure più rigorose per rendere i programmi di protezione civile e di riduzione dei rischi molto più efficaci. Prima di arrivare a questo punto è quasi certo che le perdite continueranno ad aumentare.

Nel frattempo, in tutto il mondo l'aumento dei disastri ha stimolato grandi cambiamenti nell'organizzazione e nelle tecniche di protezione civile. Per primo, il livello di interesse nei disastri, da parte di popolazioni, governi e professionisti, non è mai stato così alto, il quale ha dato luogo a notevoli accelerazioni nel ritmo di innovazione nel settore. La maggior parte dei nuovi sviluppi sono ancora nelle loro fasi iniziali, ma lo stesso è chiaro che la faccia della protezione civile sta cambiando radicalmente.[6] Questo saggio esaminerà quattro forme di innovazione: nella formazione, nella tecnologia di informazione, nella politica dei disastri, e nelle iniziative internazionali. L'articolo considererà alcuni dei problemi contemporanei nel settore e le loro possibili soluzioni.

La crescita dei programmi di formazione

In questo momento il numero di programmi di formazione per pianificatori e coordinatori di emergenza è in forte aumento in molte parti del mondo. Di orientamento i corsi variano da quelli accademici a quelli nettamente applicativi e sono offerti da una larga gamma di istituzioni, da università e istituti tecnici a compagnie private. Sia tra professionisti che tra volontari la domanda è cresciuta a livelli senza precedente, fino al punto, infatti, che l'offerta di nuovi corsi e da giudicare insufficiente.[7]

In questo settore, la crescita è stata, però, caotica e poco equilibrata. Come effetto di questo, non esiste un consenso, largamente accettato, sul contenuto e sugli obiettivi dei corsi. In questo momento il coordinamento delle emergenze non gode del pieno stato di una professione. Le persone che occupano i posti di coordinatori di emergenza sono spesso secondati da altri uffici. Potrebbero lavorare sulla protezione civile solo a tempo parziale, e infine i loro titoli di studio e di formazione potrebbero non essere ideali per il compito da fare e potrebbero essere invece molto variabile di qualità, livello e indirizzo. In tutto il mondo esistono pochi posti a tempo pieno occupati da coordinatori di emergenza di ruolo permanente dotati di una formazione apposita e completa. Invece, la formazione è spesso mancante completamente, oppure non e idonea. In questo settore, molti paesi fanno largo impiego di personale militare, o ex-militare. Negli Stati Uniti, ad esempio, il tipico disaster manager è un ex-membro delle forze armate, è maschio, di media età e probabilmente ha recentemente cambiato carriera per la prima o seconda volta. La formazione, quindi, viene offerta a chi già lavora nel campo, e non è una condizione dell'assunzione nel posto.

I migliori corsi di formazione dovrebbero offrire una miscela di esperienza e teoria.[8] L'esperienza dovrebbe essere divisa in quella comunicata e raccontata da esperti nel settore e quella acquistata direttamente da contatto con i problemi nel campo (tramite la raccolta dei dati, l'addestramento nelle tecniche di gestione, la soluzione di problemi pratici, e così via). La teoria dovrebbe essere insegnata in un contesto nettamente interdisciplinare. Soprattutto, i corsi dovrebbero essere comprensivi rispetto alle fasi delle emergenze: mitigazione, preparazione, intervento tempestivo, ripristino e ricostruzione. L'orizzonte deve essere largo e l'approccio eclettico, perché i partecipanti nei corsi, chiunque siano, hanno bisogno di conoscere non soltanto i problemi e le soluzioni che appartengono alla propria area di competenza, ma anche quelli degli altri lavoratori nel campo. Da questo punto di vista, l'organizzazione tradizionale delle discipline accademiche non è idonea: invece degli stretti scompartimenti disciplinari, serve un approccio Alaterale@ che integra una vasta gamma di materie, il quale è centrato sui problemi di risolvere, non sulle discipline. Forse a causa di questo impedimento, molte università e istituti non hanno sviluppato corsi sulla gestione delle emergenze: in genere sono gli atenei meno tradizionali che entrano nel settore per primo.[9]

Malgrado la sua attuale popolarità generale, la formazione a distanza ha i suoi difetti e critici. Eppure sembra che sia particolarmente adatta all'addestramento dei coordinatori di emergenza. Molte persone che hanno bisogno di istruzione in questo campo non possono studiare a tempo pieno. Infatti i lavori di protezione civile sono onerosi tale che spesso per studiare un orario flessibile è essenziale. Questo spiega l'alto potenziale dei corsi on-line e a distanza. Come pioniere nel settore, la Emergency Management Institute della Federal Emergency Management Institute statunitense ha sviluppato 25 profili per corsi sulle emergenze, i quali possono essere insegnati in forma modulare. Anche altre istituzioni sono coinvolte, ad esempio l'università di Wisconsin-Madison (USA) and la Australian National University.

La mancanza di protocolli largamente accettati per il contenuto dei corsi ha causato una certa mancanza di internazionalizzazione del settore della formazione e quindi un'inabilità di imparare dalle esperienze degli esperti provenienti da altri paesi. Dato che il campo della protezione civile stia rapidamente internazionalizzando, questo è un problema di particolare rilievo. Inoltre, dato la mancanza di consenso su che cosa si dovrebbe insegnare, non è tanto chiaro che cosa sia una formazione efficiente. Questo significa che non ci sono standard di giudizio e di controllo della qualità, e l'efficacia della formazione non viene scrutato abbastanza. Questo è un problema che deve essere risolto tempestivamente in modo da permettere la gestione delle emergenze di diventare una vera e propria professione, ed è un fattore che la distingue da professioni già ben radicate, come l'architettura, l'ingegneria e la giurisprudenza.

In Italia, l'Articolo 108 del Decreto-Legge Bassanini del 1998 obbliga i governi regionali ad assumere la responsabilità di preparare per le emergenze e di avviare corsi di formazione per i lavoratori di protezione civile. Ci sono segni che un modello standardizzato stia diffondendo nei maggiori centri di formazione, maggiormente in base a quello che hanno allestito alcune regioni, notevolmente la Lombardia e il Piemonte.

In sintesi, la formazione è la chiave, non soltanto alla creazione di coordinatori di emergenze saggi e competenti, ma anche all'allestimento di una figura professionale in cui il pubblico può mettere la piena fiducia. Rimane molto da fare ai livelli locali, regionali, nazionali e internazionali per creare e garantire gli appositi standard di professionalità.

Sia la formazione che il vero processo di preparazione per le emergenze saranno probabilmente rivoluzionati dalla tecnologia d'informazione, l'argomento della prossima sezione.

Una rivoluzione nella tecnologia di informazione

L'informazione è, ovviamente, una delle risorse primarie nei disastri ed è anche la chiave alla loro buona gestione. Durante il periodo dopo un disastro l'informazione tende ad essere sia carente (di qualità o di rilevanza ai problemi più pressanti) che superabbondante (di quantità e di flusso). I recenti sviluppi nelle tecnologie di comunicazione (che sono ora pronte ad entrare in una nuova fase, tramite l'introduzione di protocolli post-WAP) e nell'informatica hanno dato luogo ad un nuovo approccio alla preparazione per i disastri e alla gestione delle emergenze. Da ora in avanti la tecnologia di informazione (IT) sarà sempre più centrale a questi processi.[10]

Quando si prepara per il disastro e si gestisce l'emergenza, l'efficienza viene misurata dalla tempestività e dalla qualità dei processi decisionali, i quali devono rispondere ad un flusso massiccio di informazione in arrivo al centro gestionale. Le reti cellulari, satellitari e di informatica hanno cominciato a cambiare radicalmente le tecniche di risposta all'emergenza e gli appositi bisogni di addestramento e di formazione. Ad esempio, Internet offre più di 650 siti che trattano direttamente dei disastri e delle emergenze.[11] Ma anche se Internet si è dimostrata estremamente robusta e capace di funzionare dopo gli impatti dei disastri, essa tende a subire un sovraccarico che la rende inoperabile al momento dell'emergenza. Per questo motivo, stanno diventando più comuni gli intranet e extranet, forme di 'Internet' ad accesso limitato che sono dedicate alla gestione delle crisi e dotate dei benefici di una robustezza e di una resistenza al sovraccarico.[12] In base a tali sviluppi, ora alcuni esperti, ad esempio in ingegneria strutturale oppure in ricerca dei superstiti, possono partecipare nella gestione delle emergenze in tempo reale da siti remoti, i cosiddetti 'anchor desk', dove ricevano un flusso di informazione dal luogo del disastro, a dove rimandano istruzioni e consigli tecnici su come procedere con le operazioni di soccorso. Le tecnologie sviluppate per questi usi sono abbastanza poco costose ed inoltre il loro prezzo tende sempre a diminuire perché tali mezzi diventano più comune.[13]

Nello stesso tempo, la pianificazione e la gestione delle emergenze hanno tratto benefici dallo sviluppo di programmi al computer per gestire i data. Così, è stato possibile integrare sistemi di informazione georeferenziata (GIS) con quelli dell'immagazzinamento e del prelievo di dati in modo tale da snellire e rendere più efficiente i processi di registrare, minuto per minuto, le comunicazioni eseguite e le decisioni prese. Tali innovazioni costituiscono utili e flessibili sostegni alla percezione e alla memoria del coordinatore di emergenza, ma esse richiedono lo sviluppo di nuovi metodi di affrontare il lavoro, senza le quali il disaster manager rischia di essere sommerso dalla quantità di dati e informazioni che arrivano. La selettività è la chiave a un buon metodo di lavorare in questo settore, e tramite la formazione essa deve essere sviluppato appositamente per le circostanze delle emergenze.

Il miglioramento dell'ambiente delle comunicazioni e dell'immagazzinamento delle informazione prodotto dalla IT ha dato luogo ad un cambiamento radicale del modo in cui le emergenze vengono gestite. Sempre più spesso nel mondo, gli eventi piccoli e medi (i tipi 'A' e 'B' secondo l'usanza della L225/1992) vengono affrontati tramite l'impiego di un sistema di 'comando dell'incidente' (incident command system, ICS).[14] In questo, la tradizionale struttura gerarchica di comando e controllo viene sostituita da uno più flessibile e modulare, nel quale i primi soccorritori di arrivare al sito dell'emergenza assumono controllo in veste di un nucleo operativo. L'ICS funziona come una specie di 'cassetta degli arnesi', in quanto i compiti vengono assegnati in base ai bisogni dell'incidente e alla presenza fisica di persone e unità di specifiche competenze. Se la comunicazione e la cooperazione sono sufficienti, le unità operative possono coprire, più rapidamente e con un minimo di raddoppiamento degli sforzi, tutte le esigenze che si stanno maturando al sito. Al cuore delle operazioni di emergenza, la collaborazione sostituisce il comando. Comunque, un possibile difetto dell'ICS è che esso tende a funzionare male quando alcune unità operative decidono di lavorare indipendentemente della struttura di comando imposto dal comandante dell'incidente, il quale funge come assegnatore dei compiti di soccorso.[15]

Altri problemi associati all'IT includono, non soltanto il bisogno di riorientarsi e trattare con flussi simultanei di informazione di carattere molto variabile, ma anche l'artificialità e un senso di isolamento dai veri problemi 'a terra'. Per di più, alcuni studiosi hanno trovato che la IT riduce le opportunità per il contatto e la comunicazione a tu per tu e per varie altre forme di comunicazione non verbale; in sintesi che l'uso massiccio dell'IT rischia di impoverire la comunicazione di emergenza.[16] Malgrado questo, la tecnologia d'informazione ha molte prospettive da sviluppare in questo settore nel futuro. Ad esempio, il suo potenziale per migliorare la formazione non è stato sfruttato neanche minimamente finora. In questo contesto, la IT può essere molto utile per simulare più realisticamente alcune situazioni che il disaster manager dovrebbe coordinare.[17]

Lo sviluppo della tecnologia di informazione offre un sostegno importante per la crescita dei sistemi di protezione civile. Un altro aspetto consiste nei sistemi sociali e politici che forniscano un contesto ai processi di preparazione per i disastri. Questi sono sempre più dominati dal problema della democratizzazione del campo, come verrà discusso nella prossima sezione.

I principi democratici

A livello mondiale, la protezione civile è evoluta dalle preesistenti strutture di difesa civile create per salvaguardare la popolazione civile dalle minacce di guerra e dal rischio strategico. Così, c'è stato un processo continuo di trasformazione delle strutture militari e paramilitari in quelle civili. In alcuni paesi (particolarmente gli Stati Uniti, Canada, Australia, Francia e Italia) il processo è ben avanzato. In altri (ad esempio, la Turchia, la Corea e il Taiwan) non lo è ancora. Questo problema è legato a quello del ruolo della democrazia nella risposta al disastro.[18]

E' chiaro che la protezione civile dovrebbe proteggere la popolazione, non soltanto lo stato (e certamente non dovrebbe proteggere lo stato contro il popolo). Quindi, il prezzo di una gestione effettiva delle emergenze è una certa vigilanza per assicurarsi che i poteri straordinari che tale processo richiede, o che i governi sono tentati da usare, non vengano soggetti ad abusi e non diventino un veicolo di repressione. Inoltre, per raggiungere questa meta, è essenziale che il pubblico generale contribuisca a decidere i tipi e le qualità di protezione contro le catastrofi che vengono adoperate e come vengano usati. E' importante che la protezione civile sia un processo di collaborazione tra il pubblico e lo stato, in modo tale che la popolazione venga indotta a prendere un po' di responsabilità per la propria sicurezza e lo stato viene incoraggiato dall'elettorato per assumere il resto di questo incarico. I pianificatori di emergenza devono considerare le forme di partecipazione pubblica nelle preparazione per i disastri ed assicurarsi che i rischi e le risposte ad essi siano dibattuti apertamente e pubblicizzati a sufficienza. Per avere successo, la mitigazione dei disastri ha bisogno del sostegno del pubblico, invece di essere soltanto una materia per gli esperti. La sfida del ventunesimo secolo è di creare una 'cultura della sicurezza' e della riduzione dei rischi. I pianificatori di emergenza sono in prima linea qui.[19]

La questione della democrazia ha alcuni aspetti secondari che comunque sono importanti. Primo di tutto, alcuni gruppi possono essere svantaggiati, non soltanto dai disastri, ma anche dalla risposta di emergenza. Nel Regno Unito, ad esempio, le situazioni di emergenza hanno sollevato la già scottante questione del 'razzismo istituzionale', nella quale le esigenze delle minoranze vengono ignorate (o peggio), non a causa dell'azione deliberate di un particolare individuo, ma a causa dell'inabilità di prenderle in considerazione al livello istituzionale, ovvero a quello della pianificazione. E' un fenomeno che potrebbe diffondersi in qualsiasi paese che diventa più multietnico. Inoltre, nell'America del Nord e in India, le esigenze delle donne hanno recentemente ricevuto molta attenzione nel contesto dei disastri, mentre in Giappone, la sorta dei barboni (i quali sono tagliati fuori dai normali meccanismi di soccorso) è stata investigata nel contesto dei rischi sismici. Queste questioni (di equità) incideranno sempre di più nella pianificazione di emergenza.

Siamo ancora ad un punto in cui manca una base di sostegno e finanziamento comprensivo per i programmi di riduzione dei disastri. Da questo punto di vista, ,molti paesi, l'Italia inclusa, sono in preda alle correnti conflittuali del centrismo e della devolution. Mentre è saggio pianificare l'intervento di emergenza a livello locale, un grado di coordinamento al di sopra di questo è ovviamente necessario. I programmi dovrebbero, comunque, rispondere alle esigenze di una pianificazione efficiente, non quelle del controllo politico: si tratta di scindere la protezione civile dalla politica partitocratica quanto possibile. In questo contesto, la responsabilità primaria per la pianificazione di emergenza viene spesso data alle autorità locali senza erogare fondi sufficienti per creare o completare gli appositi programmi. Dato che la protezione civile non può essere privatizzata (tali sono i rischi di perdita dei profitti e i dilemmi morali che una tale organizzazione comporterebbe), il finanziamento è un aspetto critico. Nessun modello di pianificazione generica è apparsa con applicazione veramente mondiale, ma è evidente che l'unità più efficiente per gestire le emergenze è quella del comune o di un piccolo gruppo di comuni.

Le iniziative di pianificazione a livello mondiale

A parte i dilemmi nazionali e locali della pianificazione di emergenza, ci sono anche questioni più generali di carattere internazionale. Il Decennio Internazionale per la Riduzione delle Calamità Naturali (IDNDR, 1990-2000) sponsorizzato dall'ONU ha avuto un successo parziale, sebbene non si è avvicinato al suo obiettivo di ridurre gli impatti dei disastri della metà in dieci anni.[20] E' riuscito, comunque a mettere in moto una serie di altre iniziative internazionali per la preparazione contro le catastrofi, compreso il suo proprio successore, la Strategia Internazionale per la Riduzione dei Disastri (ISDR) con base a Ginevra. Eppure, è notevole quante istituzioni internazionali non sono riusciti ad affrontare bene il problema dei disastri. Una di questi è l'Unione Europeo, i cui sforzi sono stati finora debolissimi.[21]

Ciò nondimeno, ormai esistono tante iniziative globali e regionali. Ad esempio, l'ONU ha sponsorizzato il progetto RADIUS per migliorare la sicurezza sismica delle grandi città e molti paesi hanno usufruito di questa iniziativa per mitigare tale rischio. Inoltre, lo sviluppo economico è stato combinato con la riduzione dei disastri nel progetto SPHERE di un consorzio delle maggiori organizzazioni non governative (NGO), e anche questo ha la sua base a Ginevra. Per di più, un gruppo è stato formato recentemente, con il nome Radix, per influenzare la politica dei disastri e della gestione dei rischi con l'obiettivo di indurre i governi di prendere più seriamente le proprie responsabilità in questo campo e di aumentare la loro contabilità. Lo scopo eventuale è di creare un comitato intergovernmentale sui disastri che avrà lo stesso peso di quello già esistente sul cambiamento del clima, il quale ha avuto notevole influenza sulla politica mondiale dell'energia. In fine, esistono anche iniziative regionali, come il sistema per la gestione dei viveri (SUMA) utilizzato durante le emergenze in America Centrale e nei Caraibi.[22]

Le iniziative e lo scambio di idee internazionali sono impediti dalla mancanza di protocolli che definiscono gli standard per la formazione dei coordinatori di emergenza, per la stesura di piani di emergenza, e per la gestione delle emergenze. Anche se almeno tre strumenti di questo genere esistono, essi non rappresentano un consenso generale sui problemi che affrontano.[23] Questo è un peccato, perché la collaborazione internazionale è da incoraggiare in quanto c'è molto da imparare dall'esperienza delle emergenze e dei disastri proveniente da altri paesi.

Conclusione

Nel campo della protezione civile, i primi anni del ventunesimo secolo sono un periodo di cambiamento e di sperimentazione. La pianificazione e la gestione delle emergenze emergono gradualmente come una professione che prima o poi avrà i propri standard. Gli inesorabili aumenti nello scopo e nella magnitudo degli impatti dei disastri porterà finalmente a un massiccio aumento nella domanda del pubblico per maggiore sicurezza. I professionisti in questo settore dovranno essere preparati per cogliere l'occasione quando questo avviene e i parametri del lavoro cambiano radicalmente. Nel frattempo, la rapida entità di cambiamento tecnologico sta dando luogo a molte nuove opportunità per pianificare, gestire e comunicare i rischi e i disastri in modo innovativo, e queste richiederanno nuove iniziative di formazione e di addestramento. In sintesi, il coordinamento delle emergenze è un campo che sta sull'orlo di nuovi sviluppi di grossa entità, le quali costituiscono una sfida a tutte le persone coinvolte.


Note


[1] Coburn, A. e R. Spence 1992. Earthquake Protection. Wiley, New York, 355 pp.


[2] Drabek, T.E. 1986. Human System Response to Disaster: An Inventory of Sociological Findings. Springer-Verlag, New York, 509 pp.


[3] Alexander, D.E. 2000. Confronting Catastrophe: New Perspectives on Natural Disasters. Terra Publishing, Harpenden, UK (http://www.terrapublishing.net/), Oxford University Press, New York, 280 pp. (http://www.oup-ny.com/)


[4] Kunreuther, H. e R.J. Roth Sr (eds) 1998. Paying the Price: the Status and Role of Insurance Against Natural Disasters in the United States. National Academy Press, Washington, D.C., 320 pp.


[5] Solecki, W.D. e S. Michaels 1994. Looking through the post-disaster policy window. Environmental Management 18(4): 587-595.


[6] Alexander, D.E. 2002. Principles of Emergency Planning and Management. Terra Publishing, Harpenden, UK (http://www.terrapublishing.net/), Oxford University Press, New York (http://www.oup-ny.com/).


[7] Baldwin, R. 1994. Training for the management of major emergencies. Disaster Prevention and Management 3(1): 16‑23.


[8] Alexander, D.E. 1999. The content of emergency training programs. In P. Fontanari, S. Pittino, D. Alexander e S. Boncinelli (curatori) La Protezione Civile verso gli Anni 2000. CISPRO, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze: 309-316.


[9] Neal, D.M. 2000. Developing degree programs in disaster management: some reflections and observations. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 18(3): 417-438.


[10] Fischer, H.W. III 1998. The role of the new information technologies in emergency mitigation, planning, response and recovery. Disaster Prevention and Management 7(1): 28-37.


[11] Vedi il sito 'cancello' del governo statunitense, http://ltpwww.gsfc.nasa.gov/ndrd/disaster/.


[12] Gruntfest, E. e M. Weber 1998. Internet and emergency management: prospects for the future. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 16(1): 55-72.


[13] Stephenson, R. e P.S. Anderson 1997. Disasters and the Information Technology revolution. Disasters 21(4): 305-334.


[14] Irwin, R.L. 1989. The Incident Command System (ICS). In E. Auf Der Heide, (curatore), Disaster Responses: Principles of Preparation and Coordination. Mosby, St Louis, Missouri, 133-163. Questo libro può essere scaricato gratis da Internet al seguente indirizzo: http://coe‐dmha.org/dr


[15] Laford, R. 1999. Planning and Practice: A Guide for Emergency Services: Planning and Operations. Responder Publications, Tampa, Florida, 120 pp.


[16] Quarantelli, E.L. 1997. Problematical aspects of the information/ communication revolution for disaster planning and research: ten non‑technical issues and questions. Disaster Prevention and Management 6(2): 94‑106.


[17] Mitchell, J.T. 1997. Can hazard risk be communicated through a virtual experience? Disasters 21(3): 258-266.


[18] Platt, R.H. 1999. Disasters and Democracy: The Politics of Extreme Natural Events. Island Press, Washington, D.C., 320 pp.


[19] Prater, C.S. e M.K. Lindell 2000. Politics of hazard mitigation. Natural Hazards Review 1(2): 73-82.


[20] U.S. National Research Council, 1987. Confronting Natural Disasters: An International Decade for Natural Hazard Reduction. National Academy Press, Washington, D.C., 60 pp.


[21] Mowjee, T. 1998. The European Community Humanitarian Office (ECHO): 1992‑1999 and beyond. Disasters 22(3): 250-267.


[22] De Ville De Goyet, C. 1996. SUMA (Supply Management Project), a management tool for post-disaster relief supplies. World Health Statistics Quarterly 49: 26-32.


[23] NFPA 1600. Standard on Disaster/Emergency Management and Business Continuity Programs (2000). National Fire Protection Agency, Quincy, Massachusetts: http://www.nfpa.org/; Sphere Project, Humanitarian Charter and Minimum Standards in Disaster Response (1998). The SPHERE Project, Ginevra: http://www.sphereproject.org/; UK Home Office Standards for Civil Protection in England and Wales (1999).Home Office Communication Directorate, Londra. http://www.homeoffice.gov.uk/epd/.

L'emergenza in ambiente montano



Introduzione

A livello mondiale, gli ambienti montani coprono il 20% della terra asciutta e forniscono un sostegno diretto al 10% della popolazione. Essi sono, però, aree di rischio di disastro perennemente alto a causa di climi estremi, o per lo meno di meteorologie soggette a rapidi cambiamenti, e a causa delle topografie acclive. Esistono anche ragioni sociali per l'ostilità di certi ambienti montani. Un terzo delle guerre dell'ultimo decennio è stato compiuto in montagna. Inoltre, la maggior parte della droga pesante viene prodotta negli ambienti montani, da dove viene esportata, in eludendo le misure per sradicare il fenomeno. Sebbene il Sud dell'Europa non sia attualmente teatro degli avvenimenti sopradetti, dal 1953 al 1988, tuttavia, il 10% dei disastri in montagna (maggiormente terremoti e alluvioni) sono avvenuti nel bacino del Mediterraneo.

Nonostante l'evidente importanza delle aree montane negli annali dei disastri naturali e nella questione della sicurezza della vita moderna, nei principali testi sulle calamità, solo uno contiene un capitolo esplicitamente dedicato ai rischi ed ai disastri in montagna (Hewitt 1997).

A causa della straordinaria varietà degli ambienti che vi esistono, non è facile trovare una definizione di validità globale del concetto di 'area montana'. Hewitt, nell'opera citata sopra, la considera una zona in cui le quote d'altitudine variano dell'entità di almeno 1000 metri in 25 km. E'. però, difficile arrivare ad una definizione basata sulla natura o sulla qualità dell'ambiente geoecologico o sociale, che tende a variare moltissimo sia da un luogo all'altro che con la quota d'altezza.

Pur tenendo sotto considerazione gli aspetti geografici fisici e sociali degli ambienti montani, questo articolo si concentrerà sul problema del disastro in montagna, quali effetti produce e come affrontare i rischi e gli impatti.Le emergenze in montagna si differenziano da quelle in altri ambienti per le seguenti ragioni:(a) le dure condizioni ambientali, con il loro effetto aggravante sull'impatto dei disastri e ritardante o degradante sulla qualità della risposta d'emergenza;(b) la presenza di pericoli multipli (ad esempio, terremoti che provocano frane), i quali possono facilmente interagire e così aggravare l'impatto dei disastri;(c) l'alta vulnerabilità di molte comunità sociali e ambienti fisico-ecologici in montagna;(d) le limitazioni alla manovrabilità poste da morfologie acclive e bruschi cambiamenti di quota d'altitudine;(e) le restrizioni alle comunicazioni causate da fattori topografici e morfologici.

La pericolosità

Tra i molteplici pericoli naturali in montagna, predominano alluvioni (comprese quelle di brusco impatto di tipo flash flood), frane, colate di detriti, valanghe di neve, nevicate e ondate di tempo invernale. In determinate zone ormai ben conosciute, possono predominare i terremoti o le eruzioni vulcaniche. Meno conosciute, però, ma nondimeno pericolosi sono i rischi secondari, come quello del guasto di una diga naturale, di cui le possibili cause sono piuttosto numerose. In questo contesto, il Prefetto di Sondrio ha avuto ragione di ordinare l'evacuazione della città nel 1987 durante il disastro di Val Pola: un indagine, eseguita nel 1988, su 65 casi simili ha rivelato che la maggior parte delle grosse dighe naturali si guastano provocando alluvioni catastrofiche nel giro di non più di due settimane dalla formazione (Costa e Schuster 1988).

Ad ogni modo, in genere le alluvioni avvengono più rapidamente e con meno preavviso nelle aree montane rispetto ad altre zone. Infatti, negli Stati Uniti, le due flash flood più micidiali degli ultimi 40 anni (Rapid City, South Dakota, 1972, con 315 morti; Big Thompson Canyon, Colorado, 1976, con 137 morti--vedi bibliografia) sono accaduti entrambi in aree montane. Inoltre, come le alluvioni, i terremoti, le frane e le valanghe sono più comuni nelle montagne rispetto ad aree di quota più bassa o dotate di topografia meno accentuata.

Tra le calamità naturali, una, denominata Sturzstrom o valanga accelerata di roccia, è caratteristica degli ambienti montani. La seguente tabella, che elenca alcuni degli Sturzstrom avvenuti negli Alpi europei, dimostra che il concetto di 'evento eccezionale' sia piuttosto discutibile, data l'evidente tendenza di questi fenomeni a ripetersi nel tempo e in luoghi simili o adiacenti.

Tra i pericoli di origine tecnologica che interessano le aree montane, si nota la crescente importanza di scontri di mezzi di trasporto, incendi in galleria e guasti di funivia.[1] In parte, questa tendenza all'aumentare dei pericoli riflette il crescente ruolo delle montagne come zona di transito e meta del turismo. E' essenziale, però, non dimenticare i rischi più 'tradizionali' posti dalla tecnologia e le attività che la utilizzano, quali i crolli di una diga o il disastro in miniera. L'esperienza della Val di Stava (Valtellina 1985, 264 morti) e alcuni esempi analoghi (Buffalo Creek, West Virginia, 1972--vedi bibliografia) dimostrano che non sono soltanto le dighe alte che creano problemi, ma piuttosto il tipo di innesto tra la fonte del pericolo e l'insediamento umano a valle.

Tra i rischi di origine sociale in ambiente montano si può citare, non soltanto quelli grossi come atti di guerra, ma anche problemi apparentemente piccoli che comunque possono avere ripercussioni costose o complesse. Tra queste possiamo citare la ricerca di persone disperse e gli incidenti accaduti ad alpinisti e vacanzieri. Spesso, le operazioni di soccorso sono difficili, prolungate nel tempo e costose rispetto al numero di vite salvate. Tuttavia, esiste sempre la possibilità di un 'maxi-evento'. Ad esempio, in una sola giornata a fine degli anni '90 nell'area circum-Himalaya, ben 551 turisti e alpinisti sono andati dispersi a causa di un'improvvisa ondata di maltempo. Le operazioni di soccorso erano complesse e costose, nonché impedite dallo stato del tempo. A citare un altro esempio, nel Colorado all'altezza della stagione sciistica, una sola valle ad alto rischio di valanga di neve può contenere 16.000 sciatori.

La vulnerabilità

Esiste un consenso tra gli studiosi che nel mondo la vulnerabilità delle popolazioni montane e degli ambienti montani sono in aumento praticamente ovunque. Le popolazioni degli insediamenti montani stanno aumentando, ma non necessariamente in sintonia con la 'capacità portante' delle aree sotto pressione antropica. Al contrario: il boom economico, generalmente provocato dal turismo, alimenta un forte aumento della vulnerabilità, senza creare l'apposita reazione opposta, ovvero un corrispondente aumento della resilienza.

Particolari rischi appartengono agli insediamenti umani ubicati a fondo valle accanto al piede dei versanti. La ricerca (ad esempio Duke e Leeds 1963) indica che durante i terremoti tali posti siano soggetti ad amplificazioni sismiche e subsidenza per compattazione dei sedimenti sciolti. Queste fasce di terra sottoposte anche al rischio di essere investite da colate di detriti o valanghe di neve provenienti dai versanti ripidi che le sovrastano, e possono essere soggette anche a frane di tipo sprofondamento laterale.

Anni di ricerca nel campo delle calamità naturali hanno rivelato che una buona parte della vulnerabilità proviene da azioni prese in base ad una percezione inaccurata dei rischi. A questo proposito, notiamo una costante crescita nelle attività a rischio accompagnata da una persistente tendenza a sottovalutare i rischi appartenenti a particolari siti. Perciò aumentano il numero di occasioni in cui, ad esempio, luoghi di campeggio vengono travolti da colate di fango o da flash flood. Almeno si può constatare che esista una buona casistica su cui basare gli scenari di rischio usati nella pianificazione d'emergenza.In sintesi, i maggiori problemi di vulnerabilità delle aree montane sono:


(a) l'urbanizzazione dei fondovalle, che rende i nuovi insediamenti vulnerabili ad alluvioni, frane e valanghe;


(b) lo sviluppo dei versanti più ripidi e geologicamente più instabili;


(c) il disboscamento delle zone acclive e la creazione di troppe piste da sci, che aumentano il dissesto idrogeologico e l'entità delle valanghe;


(d) la costruzione di impianti (gallerie, funivie, ecc.) senza una necessaria protezione contro i vari pericoli attivi nei dintorni;


(e) in aree di forte presenza turistica, e nei periodi critici, il sovraffollamento dei luoghi maggiormente a rischio.

Avendo recensito i pericoli, le fonti di vulnerabilità e i rischi caratteristici delle aree montane, passeremo alle loro conseguenze in termini di come avvengono le emergenze e come possono essere affrontate tramite la pianificazione e l'intervento di soccorso.

Problemi di pianificazione e gestione dell'emergenza

Per organizzare bene la protezione civile e pianificare efficientemente l'emergenza nelle aree montane, si deve affrontare una serie di condizioni limitanti più significative che in altri ambienti. Per primo, in montagna le popolazioni possono variare fortemente con la stagione. Per di più, è difficile coinvolgere i turisti nella salvaguardia della propria sicurezza, un opera che richiede, da parte del pianificatore, una particolare sensibilità alle esigenze dell'industria del turismo.

Altre iniziative del genere devono prendere in considerazione il fatto che in molte zone montane le popolazioni indigene sono relativamente anziane e possono necessitare dei trattamenti speciali nei tempi di emergenza. Infine, le risorse tendono ad essere concentrate dove esistono i maggiori centri di popolazione, mentre è spesso il caso che devono essere utilizzate in aree molto più remote, il quale pone dei problemi logistici.

In montagna richiediamo sempre maggiori prestazioni dai sistemi tecnologici e umani, comportando così un livello di rischio sempre più alto. Ad esempio, un secolo fà il Col di Gran San Bernardo restava chiuso per 7 mesi dell'anno e non esisteva altro modo di transitare direttamente dalla Val d'Aosta in Svizzera, o viceversa. Ora, il Traforo di Gran San Bernardo deve essere mantenuto aperto tutto l'anno, malgrado i problemi tecnici collegati col maltempo invernale.

Diversi dei problemi di pianificazione e di gestione dei pericoli in montagna sono determinati da questioni di spazio e di comunicazione legate all'accentuata topografia. Ad esempio, nel caso di uno scontro di uno o più mezzi di trasporto (aereo, ferroviario, su strada, ecc.), passa un discreto intervallo di tempo nello stabilire la locazione dell'evento e per far arrivare le squadre di soccorso. Talvolta sono necessari alcuni mezzi speciali per superare le difficoltà del raggiungimento del posto in tempo utile. Inoltre, le montagne non sono terreno ideale per il volo degli elicotteri.

Un analogo problema geografico è quello delle imprese agricole di ubicazione sparsa nelle zone alte che rimangono facilmente isolate durante i disastri meteorologici. Esse richiedono una gestione d'emergenza basata su una logistica particolare, con supporto aereo dovunque possibile, anche nel campo veterinario per quanto riguarda la cura del bestiame colpito dall'evento.

I problemi da affrontare nella pianificazione dell'emergenza che sono caratteristiche, anche se non esclusivamente, delle aree montane sono i seguenti:


(a) in molti casi le montagne segnano il confine tra aree amministrative diverse: questo può comportare la frammentazione della risposta all'emergenza;


(b) a causa dei problemi di comunicazione dovuti al relativo isolamento di tali aree, è generalmente più costoso garantire lo stesso livello di servizi di emergenza nelle aree montane che nelle zone basse più popolate e meglio collegate;


(c) nella maggior parte delle calamità in montagna avvengono blocchi della viabilità che impediscono l'efficiente erogazione dei servizi di emergenza, soprattutto per la mancanza di vie di collegamento alternative;


(d) in molti casi, il salvataggio in montagna richiede grandi risorse oppure spese eccessive per ottenere risultati assai piccoli;


(e) il trasporto di emergenza è più costoso e più complesso nelle aree montane: rispetto alle altre aree nel computare atti di soccorso c'è più bisogno di cambiare il mezzo di trasporto almeno una volta.

Più di altre zone, in molte parti del mondo quelle montane hanno subito pesanti interventi di protezione strutturale. Sebbene molti studiosi e pianificatori sostengono che questo sia un passo preliminare essenziale alla riduzione del rischio, le misure strutturali (gallerie, dighe, barriere, ecc., che offrono protezione contro frane, valanghe, colate, alluvioni, ecc.) comportano alcuni svantaggi. Per primo, esse possono avere seri effetti negativi sulla qualità dell'ambiente, il quale è spesso uno dei maggiori punti di attrazione di un'area montana. In secondo luogo, tali strutture hanno continuo bisogno di manutenzione, soprattutto per combattere gli estremi di clima. Infatti, la manutenzione può costare più di un terzo del costo capitale dell'opera in questione. Occorre quindi adoperare più misure non strutturali, che, però, a loro turno non sono privi di problemi, come descritto sotto.

Uno degli elementi fondamentali della pianificazione d'emergenza in montagna è la microzonizzazione dei pericoli e della vulnerabilità (cioè, del rischio). A causa di una densità di popolazione sicuramente più bassa di quella delle aree a valle, è più difficile giustificare la microzonizzazione della aree montane in termini costo/beneficio in rapporto con il numero di persone protette. Comunque, in proporzione tali indagini sono più necessarie nelle zone montane, dove i pericoli esistono in modo spesso più concentrati.

Come in tutti gli altri casi, serve una pianificazione generica dell'emergenza, arricchita di dettagliati scenari di rischio e di impatto per ciascuno dei particolari pericoli presenti nella zona.


Oltre alla microzonizzazione del rischio, i concetti e metodi di pianificazione di maggiore rilevanza alle aree montane sono i seguenti:


(a) lo sviluppo economico dovrebbe essere proseguito soltanto in base ad un'accurata valutazione dei rischi di disastro e la presa di adeguate misure di protezione in un'apposita miscela di tecniche strutturali e non strutturali;


(b) bisogna valutare le conseguenze di guasti o crolli che in se possono avere effetti limitate ma se non vengono fermati potrebbero provocare gravi disastri secondari;


(c) con ulteriore riferimento a quest'ultimo punto, bisogna valutare i rischi associati a particolari impianti, quali dighe, funivie, barriere antivalanga, ecc., irrispettivamente della loro grandezza;


(d) in montagna ci sarebbe bisogno di allestire piani speciali di intervento d'emergenza per le imprese agricole, soprattutto quelle ubicate nella zone alte e non ben collegate alle valli;


(e) dato i particolari problemi logistici e di viabilità che esistono in montagna, servono forti patti di mutua assistenza tra giurisdizioni adiacenti;


(f) per simili motivi, ci sarebbe bisogno di un potenziamento dei mezzi di comunicazione, comportando un certo livello di duplicazione (o ridondanza) per eliminare le carenze dovute a circostanze avverse, come il maltempo;


(g) in montagna serve maggiore integrazione dei mezzi di trasporto di emergenza atta a superare con più efficienza le barriere fisiche;


(h) è consigliabile immagazzinare in punti strategici di maggiore accessibilità delle quantità di viveri e attrezzi per il soccorso: questo eviterebbe i ritardi dovuti alla relativa lentezza del trasporto in ambiente montano;


(i) occorre istituire dei programmi di 'vacanza sicura' per coinvolgere i turisti nella salvaguardia nella propria sicurezza in ambienti potenzialmente ostili.

Per quanto riguarda la funzionalità dei soccorsi, sarebbe necessario pianificare delle strategie per restaurare nel minimo tempo possibile l'accessibilità e la viabilità dopo un disastro. Come al solito, il piano può essere basato su un 'disastro di progetto', ovvero un evento di riferimento su cui vengono basati gli scenari. Per di più, ovunque che è possibile, occorre progettare delle strategie per garantire l'autosufficienza dei soccorsi per periodi di 2, 4, 8 e 12 ore dopo l'impatto di un disastro.

In fine, ricordiamo che in nessun altro ambiente come quello montano siano di maggiore importanza per la sicurezza della popolazione le strategie di sviluppo sostenibile.

Citazioni

Alexander, D.E. 2002. Principles of Emergency Planning and Management. Terra Press, Harpenden, UK, 350 pp. [Capitolo 6.2]

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Costa, J.E. e R.L. Schuster 1988. The formation and failure of natural dams. Bulletin of the Geological Society of America 100: 1054-1068.

Davies, W.E. 1973. Buffalo Creek dam disaster: why it happened. Civil Engineering 43(7): 69-72.

Duke, C.M. e D.J. Leeds 1963. Response of soils, foundations and earth structures to the Chilean earthquakes of 1960. Bulletin of the Seismological Society of America 53(2): 309-357.

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Henz, J.F., V.R. Scheetz e D.O. Doehring 1976. The Big Thompson flood of 1976 in Colorado. Weatherwise 29(6): 278-285.

Hewitt, K. 1997. Regions of Risk: A Geographical Introduction to Disasters. Addison Wesley Longman, Boston, Mass., 389 pp. [Capitolo 9]

Hsü, K.J. 1975, Catastrophic debris streams (sturzstroms) generated by rockfalls. Bulletin of the Geological Society of America 86: 129-140.

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Rengers, N., R. Soeters e C.J. van Western 1992. Remote sensing and GIS applied to mountain hazard mapping. Episodes 15: 36-45.

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Tabella n. 1: Sturzstrom storici negli Alpi europei

Località Data Volume (m;)

Airolo 1898 500.000
Diablarets 1714, 1749 50.000.000
Elm 1881 10.580.000
Flims 10.000 BP 1.224.400.000
Goldau 1806 35.000.000
Köfels 6700 BP 2.300.000.000
Lecco 1969 30.000
Schächental 1887 500.000
Triolet 1717 18.000.000
Vajont 1963 240.000.000
Val Lagone 1486 650.000
Val Pola 1987 10.000.000

[1]Un interessante esempio di quest'ultimo viene trattato sotto il profilo della protezione civile e il soccorso tecnico e medico nella rivista N&A Mensile italiano di soccorso, 2000, Anno 9, Vol. 103 (P. Cremonesi, Rapallo: intrapolati sulla funicolare).