martedì 29 aprile 2008

Un mondo di profughi



La guerra in Jugoslavia e la seguente crisi dei profughi in Albania e Macedonia hanno portato la comunità italiana di protezione civile in una nuova fase di operazioni, un avvenimento che fino a marzo del 1999 molti esponenti del campo non aspettavano, malgrado che la gestione dei profughi arrivati in Italia fosse divenuta un lavoro consueto per molti soccorritori. Nonostante le difficili condizioni dovute alle operazioni svolte all'estero, inoltre in un paese come l'Albania che non è ben dotato di infrastrutture e persino in posti non lontano dal fronte della guerra, l'emergenza è stata affrontata con serietà, professionalità e quella umanità per la quale gli italiani sono giustamente famosi. Per molti soccorritori, il lavoro in Albania ha rappresentato un'esperienza formativa, e la crisi del Kosovo è stata sicuramente un evento che ha esteso lo scopo e la gamma di attività della protezione civile italiana, nonché occasione per testare le sue strutture operative e la sua versatilità nelle crisi.

Chiaramente, nel mondo moderno la migrazione internazionale dei profughi non è una novità, dato che dal 1945 più di 150 guerre e molti disastri naturali hanno creato un gran numero di spostamenti dei popoli del mondo. Malgrado il lavoro delle diverse centinaia di organizzazioni umanitarie che lavorano con i profughi, a livello mondiale è molto difficile stimare il numero di persone che sono state cacciate dalle proprie terre e case. Se si includono, non soltanto i profughi internazionali, ma anche i gruppi di persone perseguitati ma che non hanno varcato un confine nazionale (i cosiddetti internally displaced persons, IDP), la cifra globale potrebbe arrivare ad oltre 20 milioni di persone.

Un profugo è una persona che, per motivi politici, religiosi, etnici o altro, è stato costretto con minacce o violenza fisica a lasciare la propria terra di appartenenza. Negli ultimi 50 anni il problema è cresciuto molto, ma purtroppo la legislazione internazionale che offre una definizione legale del termine 'profugo' e le regole per la tutela del medesimo non è evoluta quanto il problema.

La Convenzione Relativa allo Stato dei Profughi fu adottata dall'ONU nel 1951 ed è ancora in vigore, sebbene modificata da un Protocollo del 1967 e chiarita da una Dichiarazione sull'Asilo Territoriale del 1967 e una Dichiarazione sui Diritti Umani dei rifugiati che l'Assemblea Generale dell'ONU ha adottato nel 1985. La Convenzione del 1951 si riferisce esclusivamente a persone diventate profughi in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Solo 16 anni dopo, quando il Protocollo sui profughi fa adottato, fu estesa la definizione a tutte le vittime della persecuzione che hanno varcato i confini della propria patria.

La formula di tutela dei diritti umani che risulta da questi strumenti non è particolarmente adatta alle condizioni del profugo moderno: essa fu elaborata per tutelare piccoli gruppi di persone perseguitate per essere dissidenti (storicamente, queste sono state per lo meno membri relativamente benestanti della borghesia dei propri paesi). Invece la legislazione non è ben formulata per tutelare grandi numeri di persone fuggite dalla cosiddetta Apulizia etnica@, un fatto piuttosto singolare dato che tali atrocità non sono per niente nuove nella storia del mondo (alcuni autori considerano persino la conquista del West americano e dell'America Latina dei fenomeni analoghi alle 'pulizie etniche' dei nostri giorni).

Per di più, la definizione legale di un profugo non è applicabile alle Internally displaced persons che sono state costrette a fuggire dalle proprie case ma che non hanno varcato il confine di stato. Eppure tante di queste sono profughi nel pieno senso della parola, soprattutto dove una guerra ha causato la frammentazione di una nazione in una serie di territori separati. Inoltre, la definizione esclude le vittime di carestia, di disastro naturale e di gravi privazioni economiche, anche se in realtà ciascuno di questi fattori può essere un motivo pressante per lasciare la propria casa al pari, ad esempio, della persecuzione religiosa.

Le varie convenzioni, protocolli e dichiarazioni non chiariscono come si deve definire la 'paura di essere perseguitato', la quale è la motivazione più riconosciuta per concedere lo stato di profugo a chi non vuole tornare in patria. Non ci sono neanche provvedimenti speciali per le vittime delle guerre, le quali ormai costituiscono la maggior parte dei profughi esistenti nel mondo. Mentre le Dichiarazioni sui diritti umani elaborate dall'ONU specificano chiaramente quali sono i diritti fondamentali di tutti gli esseri umani (la Dichiarazione del 1948) e di persone che si trovano fuori del paese di origine o di nazionalità (la Dichiarazione del 1985), questi accordi non hanno lo stato di leggi e non possono essere imposte legalmente con la forza.

Malgrado queste inadeguatezze, la tutela dei profughi ha subito una notevole evoluzione negli ultimi decenni. Il principale ente di coordinamento, l'Alta Commissione per i Profughi dell'ONU (United Nations High Commission for Refugees, UNHCR) non fornisce aiuto direttamente alle popolazioni tutelate ma invece solecita e coordina l'assistenza proveniente da terzi e, ovunque possibile, negozia una soluzione al problema dei profughi. L'obiettivo principale è di organizzare il rimpatrio volontario dei profughi al luogo di origine in condizioni di pace e di adeguata sicurezza. Se questi requisiti non possono essere garantiti, la UNHCR cerca di insediare i profughi nel paese di arrivo oppure in una terza nazione che è disposta ad ospitarli.

Con il passare degli anni i paesi dell'occidente sono diventati sempre meno disposti ad accettare nuovi profughi sul proprio territorio e preferiscono donare denaro o materiali che possono contribuire a rimpatriare i profughi o ad insediarli altrove. L'Alta Commissione dell'ONU ha avuto un notevole successo nella sistemazione dei profughi, ma, ciò nonostante, può lavorare in un particolare paese soltanto se ha il pieno e esplicito permesso del governo nazionale, il quale può restringere il mandato dell'ONU a certe operazioni e vietare la possibilità di svolgerne altre.

È spesso vero che le organizzazioni non governative (conosciute in inglese come NGO) abbiano più libertà di movimento rispetto agli enti dell'ONU. Nel passato esse hanno commesso errori, ma le maggiori NGO hanno anche imparate le apposite lezioni. Una di queste è che la soluzione delle grosse crisi di profughi non è mai immediata, ma richiede parecchio tempo. Infatti, tra 4 e 6 mesi sono solitamente necessari per svolgere tutte le operazioni di acquisto, trasporto, trasloco, immagazzinamento e distribuzione di viveri e altri materiali destinati a mantenere grosse popolazioni di profughi a lungo termine. In passato, i ritardi sono risultati fatali per un elevato numero di profughi. Ad esempio, nel 1978 ben 10.000 di 200.000 profughi birmani sono morti in Bangladesh a causa della scarsita di aiuti alimentari offerti dalla comunità internazionale, la quale aveva calcolato male le esigenze.

In seguito a tali problemi, gli enti di soccorso umanitario hanno imparato a ricercare e riconoscere i segni premonitori di crisi nascenti tra popolazioni di profughi. A questo proposito, uno degli aspetti più sfortunati della situazione dei profughi kosovari era l'assenza di segni premonitori della crisi e quindi di una preparazione da parte delle agenzie umanitarie per accogliere immediatamente i primi gruppi. Comunque, in ricompenso, la crisi del Kosovo è stata un evento ad alto profilo internazionale e quindi molti aiuti sono stati forniti velocemente. Ma nel momento in cui si scrive questo saggio (giugno 1999) non è ancora chiaro se gli aiuti saranno ancora sufficienti e in alcuni casi purtroppo sembra che non lo siano.

La sistemazione a lungo termine dei profughi non è strettamente un problema di protezione civile ma piuttosto una questione di aiuti umanitari (anche se la differenza non è sempre netta). L'abilità della comunità internazionale di fornire assistenza varia con il relativo grado di attenzione dedicata ad ogni nuova crisi o situazione che avviene nel mondo. Inoltre, la grandezza, e la gravità, di un problema di profughi varia con le condizioni militari e politiche che prevalgono in ciascun momento, le quali possono creare nuove ondate di instabilità praticamente nell'arco di un solo giorno.

Con il passare degli anni la gestione dei profughi è divenuta un mestiere ben esercitato. Il maestro nella progettazione dei campi di profughi era un texano, il Dr Fred Cuny, il quale però fu brutalmente assassinato nel 1995 durante una missione umanitaria in Cecenia. Cuny progettava i campi per minimizzare i rischi di incendio e di trasmissione delle malattie, ottimizzare la coesione sociale e permettere l'espansione dei campi senza compromettere l'erogazione dei servizi. È importante ricordare che l'assenza di qualsiasi elemento fondamentale del campo può compromettere la salute e la sicurezza dei residenti. Quindi, i punti di erogazione dell'acqua, le docce, le latrine, le cliniche, le mense e le discariche non devono mancare e dovrebbero essere progettati per assicurare la massima funzionalità e accessibilità. Una seconda osservazione importante è che alcune forme di coesione e sopravvivenza sociale emergeranno tra i profughi, maggiormente là dove la progettazione e la gestione dei campi sono atte a facilitarle.

I profughi sono gruppi di persone che si trovano al fondo della scala sociale e che provengono da una società gravemente danneggiata. Ma data la possibilità, essi cominceranno a ritrovare la propria dignità umana e svilupperanno o ritroveranno meccanismi di sostegno mutuo e di supporto sociale. I campi ben progettati favoriscono questi meccanismi e nello stesso tempo minimizzano i rischi di sovraffollamento e di deterioramento delle condizioni sanitari.

Quando arriva in un campo per la prima volta un profugo può essere ferito, affamato o malato. Da quel momento in poi il suo stato di salute dipenderà, non soltanto dalla sua condizione all'arrivo, ma anche dalla qualità del cibo e della cura medica che gli viene offerta mentre risiede nel campo. Il massimo esperto su questi argomenti è il Dr John Seaman del Save the Children Fund di Londra. Egli nota che nei campi più grossi e nelle situazioni più caotiche è facile sbagliare lo stato di salute dei profughi e quindi ignorare una crisi in via di sviluppo. La cattiva gestione della salute e della nutrizione dei profughi può avere come risultato un aumento di mortalità, soprattutto di bambini e anziani.

Tra i bambini una nutrizione insufficiente può portare a deficit di crescita e a una maggiore suscettibilità a malattie, anche fatali. Il Dr Seaman fu uno dei pionieri dell'antropometria, una tecnica atta a misurare le caratteristiche fisiche (altezza, circonferenza del braccio e della cinta, peso, ecc.) dei bambini rispetto all'età del soggetto con lo scopo di stimare l'entità di crescita e metterla in rapporto con l'alimentazione del soggetto. I campi molto grossi (alcuni in Asia contengono oltre 200.000 residenti) richiedono una ripetuta indagine statistica per stimare lo stato di salute dei profughi, dato che questi sono troppo numerosi per visitare ciascuno. La salute dei bambini piccoli potrebbe essere, non soltanto fragile, ma anche l'indicatore del livello generale di salute dei residenti di un campo.

I successi e i fallimenti nell'erogazione degli aiuti ai profughi hanno fornito alle agenzie di soccorso un ricco repertorio di esperienze. Molte cose sono state riportate nella rivista Disasters, la quale fu fondata nel 1977 da un gruppo di studiosi inglesi, il London Technical Group. Attualmente è curata dal Governo britannico tramite l'Istituto per lo Sviluppo dei Paesi Esteri. Uno degli obiettivi di Disasters è di migliorare le pratiche di gestione dei profughi. A scopo di potenziare la conoscenza di questo, nel 1988 si è inaugurata un'altra rivista, il Journal of Refugee Studies, con sede presso l'Università di Oxford in Inghilterra.

Malgrado la loro esperienza, i fornitori di aiuti internazionali si trovano davanti ad un grande dilemma causato dall'avvenimento delle cosiddette 'emergenze complesse'. In queste, la sorte dei profughi è legata al collasso dell'ordine sociale, economico, politico e militare, spesso complicato da disastri naturali come alluvioni, siccità, terremoti, come avviene ripetutamente, ad esempio, in Africa Centrale. A parte la difficoltà di gestire situazioni in cui i meccanismi di base del mantenimento della vita e il tessuto sociale sono ceduti, le organizzazioni internazionali hanno dovuto lottare per mantenere la loro neutralità davanti a grosse violazioni dei diritti umani, spesso compiute da vari gruppi che partecipano in un dato conflitto. I convogli di aiuti umanitari sono stati attaccati, i veicoli sono stati dirottati, e gli aiuti destinati ai profughi sono stati comandati, sotto la minaccia delle armi, da soldati.

La proporzione di civili tra le vittime delle guerre è salita da circa il 50% negli anni '40 a quasi l'85% in alcuni conflitti attuali. La maggioranza delle vittime civili sono donne e bambini e in alcuni casi gli stessi bambini costituiscono il 60% delle persone uccise. Quindi le agenzie di soccorso umanitario hanno cominciato a dibattere se, in verità, li conviene lavorare in condizioni di neutralità o, addirittura, se sia possibile mantenere queste. Le risposte non sono chiare, ma è comunque certo che gli aiuti umanitari non sono riusciti a prevenire le crisi di profughi; essi hanno soltanto migliorato i loro effetti peggiori.

A metà del 1999 il dilemma della neutralità non è stato ancora esplicitamente posto alle forze della protezione civile italiana che lavorano nei Balcani. Ma questa situazione potrebbe cambiare se, ad esempio, il conflitto fosse esportato verso i campi dei profughi situati al margine della Jugoslavia, o se i gruppi di profughi che arrivano oltre la frontiera fossero composti anche di serbi, non soltanto di kosovari di etnia albanese.