martedì 29 aprile 2008

La pianificazione e la gestione delle emergenze complesse



Introduzione: l'emergenza complessa

Negli anni '90 una serie di circostanze strategiche e fisiche hanno dato luogo alla definizione della Aemergenza complessa@ in alcuni paesi in via di sviluppo afflitti dalla combinazione letale di guerre, collasso socio-economico e disastri naturali.[1] Un buon esempio è fornito dalla situazione attuale in Eritrea e nel nord dell'Etiopia, dove grandi spostamenti della popolazione, azioni militari, siccità e le ferite causate alle persone da mine antipersonale hanno reso ogni giorno un disastro per gli abitanti della regione.[2]

Però, alcuni contribuenti al dibattito su tali eventi hanno sostenuto che in verità tutte le grandi emergenze sono più o meno complesse.[3] Quindi, la pianificazione e la gestione dei disastri sono, prima di tutto, questioni di razionalizzare la complessità. Nei paesi industrializzati i disastri sono diventati, non soltanto più comuni e più dannosi, ma anche più complessi. Ad esempio, malgrado ogni tentativo di salvaguardare Firenze contro una ripetizione dell'evento alluvionale del 1966, è probabile che una tale eventualità avrebbe effetti peggiori rispetto a quelli verificatisi 35 anni fa. L'accumulazione incessante del capitale fisico aumenta il rischio, e la presenza nel centro della città di 10.000 veicoli causerebbe un intasamento capace di complicare parecchio le operazioni di emergenza.[4]

La parte più difficile del processo di pianificare le emergenze non è più la stima delle forze fisiche e della loro distribuzione (il "dove, quando e quanto" delle alluvioni e dei terremoti, ad esempio) benché la previsione delle sue conseguenze al sistema socio-economico e quindi di costruire un quadro complessivo di danni, perdite economiche, costi medici e sanitari, compensazione, responsabilità legali, e così via.[5]

Per fortuna, alcuni potenti mezzi sono stati recentemente sviluppati per ridurre la complessità dei disastri a livelli maneggiabili. Però, non è chiaro se siano abbastanza ben diffusi e conosciuti per migliorare lo stato delle cose. Non è neanche chiaro se esistono abbastanza consenso, fondi, programmi di formazione, addestramento e esperienza per trarre benefici da questi arnesi, o se essi semplicemente complicano i processi di preparazione per le emergenze e distraggano l'attenzione dai veri problemi del portare aiuto alle popolazioni colpite dai disastri.

Questo saggio esaminerà dieci delle più importanti questioni di pianificazione e di gestione delle emergenze nel mondo moderno.

1. Dalla sindrome della pianificazione su carta a quella della pianificazione digitale

La mancanza di un vero impegno alla preparazione per le emergenze può comportare la formulazione di piani che vengono trattati come documenti statici e depositati negli archivi senza il necessario adattamento, rodaggio e aggiornamento che li renderebbero funzionanti ed efficienti. Tanto tempo fa, questa veniva identificata come la "sindrome della pianificazione su carta", nella quale solo la lettera, non lo spirito, delle norme di protezione civile viene onorata.[6] In teoria, l'applicazione della tecnologia digitale alla pianificazione d'emergenza dovrebbe risolvere il problema della sindrome, dato che i computer offrano una maggiore flessibilità nella formulazione, l'immagazzinamento, l'esposizione, la comunicazione e l'utilizzazione dei piani, e, inoltre, dato che essi rendano facile il loro miglioramento e aggiornamento.[7] Ma sarebbe il caso che la rivoluzione digitale abbia soltanto sostituito una sindrome per un'altra?

Per primo, non c'è obbligo assoluto di utilizzare le procedure computerizzate in modo più efficace di quelle antecedenti. Secondo, l'impiego del computer e di Internet solleva questioni di equilibrio. E' possibile che prodotti offerti con strategie di marketing più efficaci accumulino più seguaci di quelli meno venduti, qualsiasi siano i loro gradi di utilità. Inoltre, le compagnie e le persone più vocali possono inondare il mercato con i loro prodotti e i loro punti di vista. Quindi, la tecnologia digitale può diventare un mezzo di diffusione, non soltanto di sviluppi metodologici di grande valore, ma anche di informazioni sbagliate e prodotti poco utili.

Alcuni ricercatori in questo campo hanno trovato che, a forza di diminuire l'intensità di interazione faccia a faccia tra persone, il computer riduce le opportunità per comunicare in modo non verbale e introduce un senso di artificialità nella gestione delle emergenze, simile a quello che prevale nelle guerre moderne, dove l'azione avviene tramite schermi da sorvegliare e bottoni da spingere che parzialmente sostituiscono gli atti più diretti.[8]

Sfortunatamente, la maggior parte dei corsi sulla protezione civile non includono linee guida su come usare per il meglio la tecnologia computerizzata e come evitare problemi di artificialità e cattiva gestione dell'informazione. Infatti, non esistono linee guida largamente accettate, anche se esse servirebbero con urgenza.

Per ora, la soluzione è di usare la tecnologia digitale con una larga misura di consapevolezza e autovalutazione. Nessuna procedura dovrebbe essere adoperata senza considerare la sua eventuale efficacia. Nessuna somma dovrebbe essere erogata o spesa senza praticare un'analisi degli appositi costi e benefici, e senza specificare i criteri per l'identificazione e giudizio dei benefici (i quali sono spesso meno facili da quantificare rispetto ai costi).

I computer e le associate tecnologie di comunicazione sono dotati di un potenziale enorme per ridurre la complessità dei disastri a favore di maggior comprensione e gestione.[9] Comunque, nello stesso tempo essi introducano un nuovo livello di complessità, e di vulnerabilità, nella preparazione per le emergenze. Quindi, i sistemi di pianificazione che fanno largo uso dell'informatica dovrebbero essere dotati di robustezza, ridondanza, e sistemi back-up, e devono accomodare bene le esigenze dell'utente. Sia i progettisti che gli utenti dovrebbero contribuire alla definizione dei requisiti necessari per raggiungere questi obiettivi.

2. Il ruolo degli scenari nella pianificazione delle emergenze

Esiste spesso una tendenza a preparare i piani di emergenza partendo dalla fine per arrivare all'inizio, cercando di abbinare il problema da risolvere alle risorse a disposizione, invece del contrario. Tali piani tendono ad essere vaghi per quanto riguarda la natura delle situazioni di emergenza ai quali devono essere applicati. Molti piani di emergenza non dispongono di un adeguato scenario di base oppure assumano in modo acritico e senza accertamenti che l'ultimo grande evento di colpire la zone sia esattamente diagnostico di quello che si aspetti nel futuro. In contrasto, un piano ben costruito dovrebbe essere basato su un'esauriente analisi dei tipi di evento che esso eventualmente affronterà. Questo richiede il pieno impiego del modellamento a scenario.[10]

Nel senso di una previsione, lo scenario è un'esplorazione di quello che potrebbe accadere sotto una serie di particolari circostanze. Esso pone la domanda "che cosa succederà se...?", ma questa dovrebbe essere verificata tramite la previsione scientifica dei pericoli e l'investigazione, guidata da una logica stretta, delle catene di conseguenze che possono accadere se avviene il disastro.[11] Lo scopo è di rivelare la più probabile seguenza di eventi, e di reazioni ad essi, in modo tale da formulare una base sicura per la pianificazione. Dato che gli obiettivi principali della pianificazione sono di ridurre le discrepanze tra le risorse necessarie per affrontare la situazione e quelle disponibili, e di applicare queste ultime nel modo più efficace possibile ai problemi urgenti causati dal disastro, è chiaro che il pianificatore avrà bisogno di una stima dettagliata e accurata di quello che potrebbe accadere.

Lo scenario (o gli scenari) di base da utilizzare nella pianificazione d'emergenza dovrebbe essere sottoposto ad un accertamento della sua validità in base a criteri di logica e veridicità. Dato che esso sia un mezzo di previsione, sarà necessario un grande numero di supposizioni riguardo quello che potrebbe accadere sotto determinate circostanze. Formulare e codificare queste non dovrebbe essere un compito troppo difficile, se la ricerca di base è sufficiente. Questo lavoro dovrebbe essere basato sul seguente ben conosciuto rapporto[12]:

pericolosità x vulnerabilità [ x esposizione] --> rischio --> impatto

In tale modo, le fasi successive della formulazione dello scenario comprendono la raccolta di informazione sulla distribuzione temporale e territoriale dei pericoli, la stima della vulnerabilità agli impatti della popolazione e delle strutture fisiche e sociali, il risultante quadro del rischio e il modo in cui il rischio potrebbe trasformarsi in un impatto. Dato che la migliore pianificazione moderna è generica (cioè, essa affronta l'intera gamma di rischi presente nella zona anziché un solo pericolo o rischio)[13], questo processo dovrebbe essere compiuto con un livello di generalizzazione e di flessibilità tale da non essere reso inutile da sviluppi inattesi.

3. Il rapporto tra la pianificazione di emergenza e quella urbanistica

Uno degli aspetti più lamentabili della pianificazione di emergenza nel mondo moderno è la sua comune mancanza di rapporto con la pianificazione territoriale e urbanistica. Solitamente, la protezione civile non viene insegnata agli studenti di architettura, e i corsi sulla gestione delle emergenze non includono cenni sulla pianificazione territoriale. Eppure i legami tra le due discipline dovrebbero essere chiari: essi sono raffigurati dal concetto della "pericolosità del luogo".[14]

Uno dei mezzi più conosciuti e efficaci di ridurre i rischi causati alle vite e alle cose dalle calamità naturali e tecnologiche è di imporre vincoli sugli usi del terreno nei luoghi più minacciati. Nel 1986 l'esplosione e l'incendio di un serbatoio di benzina rese senzatetto 2400 persone e ammazzò diverse vittime nel cuore di Napoli. Nel maggio del 1998 150 persone morirono nelle colate detritiche di Sarno e Quindici in Campania. In entrambi di questi esempi, pericoli ben identificabili non hanno stimolato le apposite misure di riduzione dei rischi e delle vulnerabilità. Spesso, la misura più semplice e meno costosa è di separare usi incompatibili del terreno. Per lo meno questa richiede un forte dialogo tra pianificatori di emergenza, i quali possono formulare gli scenari di rischio, e quelli urbanistici, i quali possono progettare misure per restringere lo sviluppo urbano nelle zone di maggior pericolo.

Un secondo aspetto del problema è quello del possibile ruolo della pianificazione urbanistica nel miglioramento delle condizioni per la prima gestione delle emergenze. Le strade potrebbero aver bisogno di essere allargate e sgomberate di ostruzioni in modo da permettere la popolazione di essere evacuata rapidamente e i mezzi di soccorso di arrivare in tempi brevi. Gli scenari di emergenza dovrebbero identificare questi nodi cruciali nel sistema urbano, la cui gestione è essenziale al buon esito delle operazioni di emergenza. Tali punti includono ospedali, centri operativi, luoghi di ammassamento, magazzini di attrezzi e viveri, e aree dove è previsto maggior intensità di impatto, come zone allagabili e versanti particolarmente instabili. La progettazione delle aree urbane può fare molto per facilitare la pianificazione di emergenza se quest'ultima viene esplicitamente incorporata nei suoi obiettivi.

La soluzione è, quanto possibile, di integrare i piani di emergenza con quelli urbanistici. Questo richiede dialogo e cooperazione tra i due tipi di pianificatore, entrambi dei quali devono apprezzare i problemi e i punti di vista dell'altro.[15]

4. L'integrazione verticale e orizzontale dei piani di emergenza

Un altro difetto comune dei piani di emergenza accade quando essi vengono scritti in mutuo isolamento. In Italia, ad esempio, la legislazione vigente è vaga per quanto riguarda il rapporto tra piani a livello comunale, provinciale, regionale e nazionale. Le province e le regioni hanno, certo, dei ruoli di coordinamento ma non esiste garanzia che i piani saranno integrati, ad esempio tra una regione e quella adiacente, e che i piani comunali saranno conforme a quelli formulati, dove avviene, per fabbriche, ospedali, aeroporti e così via. Dato che la pianificazione di emergenza diventi sempre più diffusa, questo problema è destinato a crescere. Il risultato è una vasta area di potenziale conflitto tra gli obiettivi e le procedure di piani che si sovrappongono. Potrebbe verificarsi, quindi, duplicazioni di iniziative, fallimenti di comunicazione tra le organizzazioni che partecipano in un piano, ed altre forme di inefficienza. In Italia durante un disastro nazionale, un comune che fa capo ad un COM secondo i lineamenti del metodo Augustus potrebbe ospitare fino a 37 scrivanie per le 9 e 14 funzioni di supporto, se si prende in considerazione i centri operativi nazionali, prefetturali e comunali. Più funzioni ci sono e maggiori sono le opportunità per avere problemi di comunicazione e coordinamento.

A livello comunale, i pianificatori di emergenza dovrebbero essere catalizzatori per stimolare l'allestimento di piani in altre organizzazioni, come ospedali e industrie. Ma il livello di compatibilità e di interazione tra i corrispettivi piani e pianificatori deve essere alto. Solo così si può garantire che la qualità di comunicazione tra organizzazioni rimane alta durante le situazioni di emergenza.[16]

5. Creare e riconoscere adeguati standard professionali

Secondo il consenso attuale, la pianificazione di emergenza non è ancora una professione.[17] Tipicamente, i coordinatori di protezione civile hanno altri compiti, oppure vengono da campi e mestieri non legati alla gestione dei disastri, ai quali potrebbero prima o poi essere richiamati. A parte questo senso di provvisorietà, non esistono adeguati standard professionali, neanche protocolli largamente accettati per determinare il contenuto dei corsi di formazione e di addestramento. Pochi atenei offrono corsi o lauree nella pianificazione e la gestione delle emergenze[18]: In ogni caso, non esiste un consenso su esattamente che cosa un coordinatore di emergenza dovrebbe sapere. Inoltre, i corsi di formazione esistenti offrono una miscela estremamente eterogenea di informazioni e di solito non vengono eseguiti alcuni controlli sulla qualità dell'istruzione. Il primo risultato di questa situazione è che i livelli di conoscenza e di formazione dei coordinatori di emergenza variano moltissimo, e il secondo è che lo scambio di idee e l'abilità di imparare dagli altri vengono impediti dalla mancanza di una compatibilità e una definizione di un corpo di informazione che i coordinatori dovrebbero, per comune consenso, sapere.[19]

E' ora di creare e migliorare gli standard e le norme per la formazione dei disaster manager e di badare ai processi di eventuale certificazione. Gli standard dovrebbero specificare il minimo numero di ore di istruzione e definire il contenuto dei corsi. Essi dovrebbero anche trarre un equilibrio nei processi di formazione tra imparare la teoria e accumulare l'esperienza pratica.

La crescente complessità dei disastri richiede che i coordinatori d'emergenza siano consapevoli dei diversissimi aspetti del campo. Circa 30 discipline accademiche sono coinvolte, ed anche molti mestieri tecnici.[20] Nell'assenza di linee guida su che cosa studiare e come affrontare l'argomento, la strategia migliore dell'aspirante disaster manager dovrebbe essere di potenziare la propria conoscenza con una lettura dei materiali che sono liberamente disponibili nel campo internazionale. Diversi siti della World Wide Web offrono percorsi guidati di letteratura, ad esempio al sito della Emergency Management Institute statunitense, http://www.fema.gov/emi/.

La teoria non dovrebbe essere trattata come aspetto di minor importanza rispetto all'esperienza pratica. Nelle parole di un esperto nel settore[21] essa è una specie di Acarta stradale@ che orienta il coordinatore di emergenza nei momenti più stressanti e incerti. Imparare bene il mestiere di disaster manager significa riconoscere che la teoria e l'esperienza pratica sono complementari, e che l'uno rende comprensibile l'altro. Questo aspetto verrà commentato nella prossima sezione.

6. La voraggine tra ricerca e pratica: il bisogno di un dialogo

Pochi disaster manager sono consumatori regolari della letteratura accademica sui disastri e pochi ricercatori accademici scrivono in un linguaggio che attirerebbe i coordinatori di emergenza. Infatti, la scrittura accademica è spesso opaca e piena di gergo scientifico, il quale legittimizza ciò che si scrive negli occhi di altri accademici ma lo rende incapace di letture da parte di altri gruppi. In qualsiasi caso, gran parte della letteratura accademica in questo campo è nascosto in pubblicazioni di non facile accesso. Come risultato, molte scoperte utili non vengono accolti da chi potrebbe trarre gli appositi benefici.

A livello mondiale, alcune istituzioni stanno cercando attivamente di combattere questa situazione. Una delle più importanti è il Natural Hazards Center dell'Università di Colorado a Boulder, negli Stati Uniti. Questo ente offre un sito web ben fornito di informazioni pratiche (http://www.colorado.edu/hazards/), più tre periodici di scopo applicativo in forma stampata e uno in forma elettronica. Analogamente, lo Emergency Preparedness Information Exchange della Simon Fraser University canadese (http://hoshi.cic.sfu.ca/epix/) è una risorsa accademica di primo rilievo per i coordinatori di emergenza.. Così sono anche Emergency Management Australia (http://www.ema.gov.au/) e il Canadian Centre for Emergency Preparedness (http://www.ccep.ca/).

Il dialogo richiede che entrambe le parti dimostrino un desiderio di interagire. I disaster manager devono pubblicizzare la natura dei loro bisogni nel settore della ricerca, mentre i ricercatori devono imparare a comunicare meglio fuori dei confini del proprio campo, senza abbassare il livello di discorso. Entrambi i gruppi dovrebbero allargare i propri orizzonti ed imparare di ascoltare meglio gli altri.

7. La gestione dell'informazione nell'epoca della tecnologia digitale

Il paradosso della tecnologia d'informazione è che essa aumenta notevolmente la quantità di informazione disponibile senza necessariamente migliorare la sua qualità. Quindi, dobbiamo evolvere una strategia di sopravvivenza per gestire in modo efficace le informazioni che arrivano. Questo significa:

(a) evitare di dipendere su fonti di informazione essenziale che potrebbero bloccarsi o sparire nei momenti critici;

(b) essere sicuri che le informazioni più fondamentali non vengano archiviate o distrutte a causa dell'inabilità di riconoscere la loro importanza;

(c) raccogliere, al momento opportuno, le informazioni "deperibili" (solitamente durante le prime fasi di un'emergenza) e creare in anticipo di questi eventi le apposite procedure per la raccolta;

(d) imparare a discriminare rapidamente tra informazioni valide e non valide, utili e inutili;

(e) imparare a fare la sintesi delle informazioni più utili in una situazione di sovraccarico e di stress;

(f) evitare l'eccessiva dipendenza dalla tecnologia di informatica e le situazioni in cui gli attrezzi e lo software a disposizione determinano la soluzione al problema, anziché la soluzione venga determinata dalla natura del problema stesso;

(g) sviluppare un'abilità critica di riconoscere che cosa è utile;

(h) imparare ad interpretare i dati in termini umani e operativi.[22]

Nel passato recente, alcuni grandi disastri hanno fatto nascere persino 20 siti della World Wide Web,[23] ma questo non ha garantito che la qualità delle informazioni liberamente disponibili in rete sia migliorata o che sia più accurata, neanche che ci sia un potenziamento della qualità di gestione di tali emergenze, soprattutto perché non c'è stato alcun controllo della qualità delle informazioni erogate. In sintesi, la rivoluzione digitale è caratterizzata da un certo livello di anarchia.

Ciò nondimeno, l'informazione è diventata una risorsa di grande valore, e una larga parte dei sistemi commerciali, industriali e finanziari ormai dipendono dalla sua diffusione tramite mezzi elettronici. La pianificazione d'emergenza deve quindi assicurarsi che nei disastri i flussi di informazione facciano parte della soluzione non del problema. Il fallimento delle comunicazioni possono comportare grandissime perdite di denaro, ad esempio quando i clienti non possono acquistare merci, gli ordini non possono essere comunicati, e il denaro non può essere trasmesso elettronicamente. Infatti è possibile che nei disastri futuri, metà delle perdite saranno causate dal non funzionamento dei sistemi elettronici. Perciò, la perdita di informazione non è soltanto un rischio alla gestione delle emergenze ma anche una parte significativa e crescente della vulnerabilità da ridurre tramite azioni di mitigazione prese prima dell'avvenimento del disastro.[24]

8. L'abilità politica del coordinatore d'emergenza

I più aggiornati corsi per aspiranti disaster manager generalmente insegnano aspetti della scienza di management e gestione aziendale. Comunque, è chiaro che tali figure non dovranno soltanto coordinare le persone sotto il loro controllo ma anche sopravvivere nell'arena politica. Il disaster manager è, soprattutto, un facilitatore, il quale lavoro è di ottenere un consenso su ciò che è necessario fare per innovare nel campo della pianificazione e la gestione delle emergenze. Questo richiede una conoscenza delle conseguenze legali, sociali e politiche delle decisioni prese in tempi di quiescenza come in quelle di emergenza, e di comunicare in modo efficace tale da convincere le gerarchie politiche del bisogno di migliorare i sistemi di protezione civile.

Comunque, sia durante le emergenze che nei cosiddetti Atempi di pace@ il disaster manager dovrebbe avere una percezione della situazione che non supera la sua capacità di comandare le risorse a disposizione.[25] Ovviamente, la qualità più fondamentale è il senso di realismo. Per di più, i sistemi di comando devono essere privi di ambiguità.

9. La sfida di coinvolgere il pubblico nella riduzione dei rischi e di creare una cultura popolare di protezione civile

Le più recenti tendenze nella protezione civile hanno dimostrato l'importanza di democratizzare il campo. Il pubblico non darà sostegno alle iniziative per prevenire i disastri se esso non viene coinvolto attivamente. Nello stesso tempo, bisogna dotare la gente con un certo livello di responsabilità per la propria sicurezza. Assumere che la protezione civile sia una materia soltanto per gli esperti è un atteggiamento comune ma pericoloso.

Per primo, i migliori programmi atti ad interessare la popolazione nella protezione civile richiedono una certa selettività nella scelta dei gruppi da coinvolgere. Inoltre, è necessario raccogliere informazioni accurate sull'efficacia dei progetti dal punto di vista dei loro utenti. Bisogna non soltanto progettare la pubblicità accuratamente, ma anche valutare bene il suo impatto in termini dell'efficienza della diffusione di informazione e della riduzione del rischio. Nel passato alcuni schemi sono falliti proprio per mancanza di consapevolezza dei propri impatti sul pubblico.[26] Per lo meno, l'indifferenza della popolazione sarebbe, ovviamente, indicativa di un programma che non funziona.[27]Nel passato i programmi atti a sensibilizzare il pubblico sono falliti per i seguenti motivi:


(a) alcuni preavvisi non sono finiti in disastri, riducendo il grado di fiducia che il pubblico ha nel sistema di avvertimento;


(b) l'informazione specificava che cosa doveva succedere, ma non che cosa fare quando succedeva;


(c) l'informazione era vaga a proposito dei pericoli e i segni di avvertimento;


(d) le informazioni e gli ordini erogati erano conflittuali;


(e) il pubblico non è stato coinvolto nei processi decisionali, tale che le decisioni prese non sono state accettati quando furono comunicate alla popolazione;


(f) le norme culturali locali non sono state rispettate e neanche i consueti modi di comunicare e di comportarsi, creando così un senso di estraneità nelle informazioni fornite.[28]

Ognuno di questi problemi può essere evitato prestando sufficiente attenzione al contesto locale dei programmi di educazione e di sensibilizzazione del pubblico e monitorando gli impatti delle iniziative lanciate.

10. I mass media: amici o nemici?

I servizi di informazione dei mass media sono estremamente importanti alle campagne di sensibilizzazione del pubblico al rischio, ma la ricerca ci offre una differenza di opinione sul ruolo dei media delle emergenze. Probabilmente, il bilancio inclina verso un punto di vista che considera i giornalisti irresponsabili e inaffidabili,[29] sebbene alcuni ricercatori hanno dimostrato come i mass media possono essere indotti a collaborare con i servizi di protezione civile in modo vitale e responsabile.[30] In entrambi i casi, i coordinatori di emergenza non possono permettersi di ignorare o di maltrattare i rappresentanti dei media: non si può bandire la pubblicazione di informazione, si può soltanto cercare di fare in modo che sia accurata.

I mass media non possono essere comandati in un disastro. Il meglio che si possa sperare è che essi vengano coinvolti in modo costruttivo ed diffondere informazioni corrette e smentire quelle sbagliate. Trattati in modo dignitoso, generalmente i giornalisti accettano la sfida e si comportano bene. Essi devono, comunque, essere forniti con le informazioni e l'assistenza di cui hanno bisogno per lavorare. La mancanza di comunicazione tra le autorità di protezione civile d i rappresentanti dei mass media può causare la diffusione di malintesi, ad esempio a proposito della natura delle operazioni di emergenza, e questo può ridurre il livello di cooperazione del pubblico con le autorità. Quindi è essenziale che un piano di emergenza contenga una sezione sui provvedimenti per i mass media. Informazioni utili a questa fine sono disponibili al sito web della FEMA statunitense, http://www.fema.gov/media/.

Conclusione

In sintesi, un buon piano di emergenza dispone dei seguenti requisiti:

(a) è generico (affronta tutti i pericoli) invece di essere ristretto a singoli rischi;

(b) è scritto in base a ben curati scenari di pericolosità, vulnerabilità, rischio e impatto;

(c) è integrato con i piani di altri enti e altri livelli del governo;

(d) rappresenta un processo, non una fine a se stesso, ed è quindi sempre sottoponibile all'aggiornamento e al miglioramento;

(e) è legato alla pianificazione urbanistica con l'obiettivo di ridurre la "pericolosità del luogo" tramite vincoli sull'uso del territorio.

Un buon pianificatore di emergenza è:

(a) ben consapevole della letteratura applicativa sui rischi naturali ed antropici;

(b) ben consapevole delle implicazioni legali e politiche del suo lavoro;

(c) una persone che facilità anziché comanda;

(d) capace di apprezzare i legami tra diverse discipline e metodologie;

(e) capace di lavorare in modo efficace con il pubblico generale e con i rappresentanti dei mass media.

Noti


[1] Un classico articolo su questo tema è: Duffield, M. 1996. The symphony of the damned: racial discourse, complex political emergencies and humanitarian aid. Disasters 20(3): 173-193. Un articolo più didattico è: Prehospital and Disaster Medicine 1995. Complex, humanitarian emergencies: I. Concept and participants. Prehospital and Disaster Medicine 10: 36-42.

[2] Vedi i situation reports di Action by Churches Together (ACT), disponibili al sito web dei Volunteers in Technical Assistance, http://www.vita.org/.

[3] Kirkby, J., P. O'Keefe, I. Convery e D. Howell 1997. On the emergence of complex disasters. Disasters 21(2): 177-180.

[4] Vedi Alexander, D. 2000. Confronting Catastrophe. Terra Publishing, Harpenden, UK, e Oxford University Press, New York: 99-101.


[5] Ellson, R.W., J.W. Milliman e R.B. Roberts 1984. Measuring the regional economic effects of earthquakes and earthquake predictions. Journal of Regional Science 24: 559‑579.


[6] Vedi discussione in Auf der Heide, E. 1989. Disaster Response: Principles of Preparation and Co-ordination. Mosby-Yearbook, St Louis, Missouri, 363 pp. Questo libro può essere scaricato da Internet gratis al seguente indirizzo: http://coe‐dmha.org/dr


[7] Gruntfest, E. e M. Weber 1998. Internet and emergency management: prospects for the future. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 16(1): 55-72.

[8] Quarantelli, E.L. 1997. Problematical aspects of the information/ communication revolution for disaster planning and research: ten non‑technical issues and questions. Disaster Prevention and Management 6(2): 94‑106.


[9] Tobin, R. e R. Tobin 1997. Emergency Planning on the Internet. Government Institutes, Inc., Rockville, MD, 230 pp.


[10] Alexander, D. 2002. Principles of Emergency Planning and Management. Terra Publishing, Harpenden, UK (http://www.terrapublishing.net/), e Oxford University Press, New York (http://www.oup-ny.com/).


[11] Alexander, D. 2000. Scenario methodology for teaching principles of emergency management. Disaster Prevention and Management 9(2): 89‑97.


[12] Basato su UNDRO 1982. Natural Disasters and Vulnerability Analysis. Office of the United Nations Disaster Relief Co-ordinator (UNDRO), Geneva, e Burton, I., R.W. Kates e G.F. White 1993. The Environment as Hazard (2nd edn). Guilford Press, New York, 304 pp.


[13] Quarantelli, E.L. 1992. The case for a generic rather than agent specific agent approach to disasters. Disaster Management 2: 191‑196.


[14] Hewitt, K. e I. Burton 1971. The Hazardousness of Place. University of Toronto Press, Toronto.


[15] Britton, N.R. e J. Lindsay 1995. Demonstrating the need to integrate city planning and emergency preparedness: two case studies. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 13(2): 161-178.


[16] McLoughlin, D. 1985. A framework for integrated emergency management. Public Administration Review 45 (numero speciale): 165-172.


[17] Drabek, T.E. 1988. The Local Emergency Manager: The Emerging Professional (Part 1). National Emergency Training Center, U.S. Federal Emergency Management Association, Emmitsburg, Maryland.


[18] Circa il 3.5% delle università e college statunitensi (70 instituzioni) offrono corsi sulla gestione delle emergenze. In altri paesi l=offera e ancora più magra.


[19] Neal, D.M. 2000. Developing degree programs in disaster management: some reflections and observations. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 18(3): 417-438.


[20] Alexander, D. 1993. Natural Disasters. UCL Press, Londra, e Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, 632 pp.


[21] Professore Thomas E. Drabek, in uno dei percorsi FEMA citati sopra.


[22] Quarantelli, E.L. 1997. Problematical aspects of the information/ communication revolution for disaster planning and research: ten non‑technical issues and questions. Disaster Prevention and Management 6(2): 94‑106.


[23] Ad esempio il grande terremoto Hanshin-Kobe in Giappone nel 1995 e l'Uragano Mitch nell'America centrale nel 1998, entrambi dei quali hanno dato luogo a fino a 20 siti web.


[24] U.S. National Research Council 1996. Computing and Communications in the Extreme: Research for Crisis Management and Other Applications. Computing Science and Telecommunications Board, National Research Council, Washington, DC, 174 pp. Questa e alcune pubblicazioni simili possono essere ottenute da http://www.nap.edu/readingroom/.


[25] Alexander, D.E. 1999. How are emergency plans written, tested and revised? In P. Fontanari, S. Pittino, D. Alexander e S. Boncinelli (curatori) La Protezione Civile verso gli Anni 2000. CISPRO, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze: 151-177.


[26] Alexander, D. 1993. Natural Disasters. UCL Press, Londra, e Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, pp 16-20.


[27] In un caso infamo, quello dell'esercitazione del 1981 per affrontare un'alluvione sul fiume Tamigi a Londra, una larga e costosa campagna pubblicitaria finì nel niente: le ingagini sociali rivelarono che il 50% della popolazione non aveva ricevuto il preavviso e, delle persone che hanno capito che cosa stava succedendo, il 30% non ha saputo che cosa significava e che cosa avrebbe dovuto fare (IDI 1981. The Physical and Social Consequences of a Major Thames Flood. International Disaster Institute, Londra, p. 44).


[28] Southern, R.L. 1995. Warnings that failed, warnings that worked. Stop Disasters 25: 9-10.


[29] Goltz, J.D. 1984. Are the news media responsible for the disaster myths? A content analysis of emergency response imagery. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 2(3): 345-368.


[30] Scanlon, J., S. Alldred, A. Farrell e A. Prawzick 1985. Coping with the media in disasters: some predictable problems. Public Administration Review 45 (numero speciale): 123-133.