martedì 29 aprile 2008

Calamità naturali e rischi associati: sviluppo del campo nel mondo anglofono e valutazione del suo potenziale scientifico



In questo saggio verranno descritti i concetti fondamentali associati con lo studio delle calamità naturali e dei rischi a loro associati. Sempre nell'ottica del mondo anglofono, lo sviluppo del campo verrà descritto e valutato criticamente per quanto riguarda la sua capacità di risolvere i problemi pratici collegati con i disastri naturali. Sarà considerata la possibilità di rivitalizzare alcuni concetti da molto tempo negletti, come il catastrofismo ed il determinismo ambientale. Verranno discussi i problemi attuali della 'disastrologia', e verrà fatta una previsione del suo probabile sviluppo futuro.

Definizione dei concetti di base

Possiamo definire un evento estremo come qualsiasi manifestazione in un sistema geofisico (della litosfera, idrosfera, biosfera o atmosfera) che devia sostanzialmente o significativamente dalla sua media a lungo termine (Ball, 1979). Ad esempio, la siccità e le alluvioni rappresentano limiti di uno spettro di eventi che risultano da diverse frequenze e magnitudi delle piogge. I rischi di calamità naturale risultano dalla collocazione delle popolazioni umane e gli eventi geofisici, mentre il disastro naturale può essere definito come un rapido, istantaneo o profondo impatto dell'ambiente naturale sul sistema socio-economico umano, quando a quest'ultimo manca la capacità di riflettere, assorbire o respingere l'impatto (White, 1974). L'attività umana destinata a ridurre l'impatto negativo degli eventi naturali può essere definita come aggiustamento, e il processo di alterazione delle forme di attività antropica e insediamento umano come adattamento (Burton, Kates e White, 1978). Questi termini riflettono il concetto generale che l'umanità è capace di vivere in simbiosi con l'ambiente naturale, a forza di sostenere i meccanismi ecologici sui quali essa dipende per la propria sopravvivenza, o in uno stato di parassitismo, nel quale le risorse vengono sfruttate in modo esagerato ed i rischi di calamità naturale vengono ignorati fino a quando non colpiscono (Alexander, 1985). Nella maggior parte dei casi la strategia scelta è un compromesso tra questi due estremi.

Sia i disastri che gli agenti che li producono sono sufficientemente complessi da rendere estremamente difficili i tentativi di classificarli. Comunque, una distinzione di base è quella tra i disastri di impatto brusco e quelli ad impatto lento (i cosiddetti 'creeping disasters'). I primi possono avvenire nel giro di secondi (terremoti), minuti (trombe d'aria) o ore (alluvioni del tipo 'flash floods'); mentre i secondi possono durare per mesi (certi tipi di eruzione vulcanica), anni (forme di subsidenza del terreno) o secoli (vari tipi di degradazione del terreno ed erosione del suolo). C'è, infatti, un continuo nella rapidità di impatto (vedi la Tabella no 1), mentre d'altra parte manca una definizione fissa di che cosa significa un 'evento brusco'. Inoltre, non si possono imporre regole generali sugli eventi naturali per quanto riguarda la soglia di magnitudo che viene associata con il disastro vero e proprio, dato che un evento piccolo potrebbe avere implicazioni molto serie se colpisse una località di alta vulnerabilità umana. E` chiaro, comunque, che la maggior parte degli eventi estremi geofisici avvengono con una certa regolarità e con un periodo di ricorrenza, o di ritorno, dell'ordine di 10-1-102 anni, il quale ravvicina all'intervallo di tempo interessato dalla memoria umana.

La sequenza di stati appartenenti al concetto di disastro è questa:

rischio generale --> rischio specifico --> impatto del disastro --> emergenza post-disastro[1]

Quindi, un rischio non specifico di calamità naturale può manifestarsi come una probabilità concreta e quantificabile di disastro che, quando diventa imminente, si concretizza come una minaccia specifica alla vita, all'insediamento e alle attività antropiche, che, se non viene pienamente mitigata, risulta probabilmente in un impatto geofisico di entità disastrosa. L'emergenza a seguito del disastro può essere largamente divisa tra il breve termine, che sarà dominato dal bisogno di restauro delle funzioni danneggiate, e il lungo termine, dominato dalla ricostruzione ex-novo (Haas, Kates e Bowden, 1977; Geipel, 1982, 1990).

In linea di principio, la vulnerabilità umana è una funzione dei costi e dei benefici dell'insediamento e dell'uso delle aree a rischio dalle calamità naturali (Russell, 1970). L'impatto netto dei disastri può essere visto come una semplice equazione concettuale (Burton, Kates e White, 1978):

Bn = ΣBt - ΣD - ΣC

dove Bn è il beneficio netto derivato dall'occupazione di una zona a rischio di calamità naturali, ΣBt è il totale dei benefici derivati da vivere o lavorare nell'area in questione, ΣD è il totale dell'impatto e del costo della calamità, e ΣC è il costo totale dell'adattamento al rischio e all'impatto. Se, come è spesso il caso, i benefici dell'uso della zona a rischio sono meno facili da quantificare che gli impatti attuali e il costo della loro mitigazione, il termine Bn può essere visto come il costo netto dell'insediamento della zona a rischio (Dacy e Kunreuther, 1969).

Secondo l'Ufficio per il Soccorso dei Disastri dell'ONU (UNDRO), il concetto di rischio può essere visto nell'ottica di tre definizioni (vedi Alexander, 1990):

(1) Gli elementi a rischio (E) comprendono la popolazione, le proprietà immobiliari, le attività economiche, i servizi pubblici, e così via, che vengono minacciati dal disastro in una data area.

(2) Il rischio specifico (Rs) è la probabilità di un particolare grado di perdita causato da un dato fenomeno naturale di entità catastrofica. Può essere espresso come il prodotto del rischio di calamità naturale (il 'natural hazard', H) e la vulnerabilità, V, della popolazione che denuncerà l'eventuale perdita.

(3) Il rischio totale (Rt) consiste nel numero di vite perse, il numero di feriti, il danno alle proprietà immobiliari, ed il danno alle attività economiche in seguito ad un particolare fenomeno naturale. E` il prodotto del rischio specifico (Rs) e gli elementi a rischio (E):

Rt = E.Rs = E(H.V)

Ho sostenuto in un'altra pubblicazione (Alexander, in corso di stampa) che quest'approccio utilizza una concezione troppo semplicistica della vulnerabilità. Invece, questa è una funzione dell'amplificazione del rischio, Ra (la conseguenza di cattiva pianificazione e negligenza nell'applicazione delle norme per l'edificazione delle zone a rischio), della mitigazione del rischio, Rm (dovuta alla buona pianificazione e alle giuste misure di sicurezza nell'edificazione), e alla percezione del rischio, Rp (che tende ad essere condizionata dalla cultura che prevale nell'area a rischio):

V = Ra - Rm +/- Rp


Quindi, anche il rischio totale è una funzione di questi tre fattori, i quali valori (le costanti k nella seguente equazione) non sono stati finora precisamente specificati nella letteratura sulle calamità naturali:

Rt = E.(H.[k1.Ra - k2.Rm +/- k3.Rp])

I concetti del rischio e della vulnerabilità umana, contrapposti all'impatto e alla ricorrenza dell'evento geofisico, sono fondamentali in tutte le formulazioni teoriche finora sviluppate per facilitare la riduzione dei rischi e la previsione degli eventi naturali (U.S. National Research Council, 1987).

Definizione del campo

E` essenziale che nuovi e più potenti mezzi vengano trovati per ridurre le cifre di mortalità, morbidità e distruzione causate dalle calamità naturali. Per rispondere a questo imperativo il campo deve abbracciare sia la dimensione teorica che quella applicativa, e deve unificare queste ultime due nella formazione di un corpo di teoria che può essere applicato alle questioni pratiche, come la ricerca e il salvataggio dei dispersi, e la progettazione di edifici che si comportano con sicurezza durante i maggiori impatti geofisici. Come mostrerà la successiva descrizione, il campo della 'disastrologia' è cresciuto in stretta associazione con le scienze applicative, sia naturali che sociali, ma ha sofferto di problemi di frammentazione e di eccessiva specializzazione che lo hanno afflitto negli ultimi tempi. Fino ad un certo punto questa situazione può avere impedito alla 'disastrologia' l'aquisizione di una identità scientifica separata e coerente.


Tra gli studiosi dei fenomeni naturali negli ultimi 125 anni c'è stato un cambio graduale di enfasi dall'impatto dell'ambiente sull'umanità a quello dell'umanità stessa sull'ambiente. Nel 1864 il vermontese George Perkins Marsh sosteneva che la geografia fisica avrebbe dovuto descrivere le influenze antropiche sull'ambiente naturale e trovare modi per ridurre gli impatti più forti e negativi (Marsh, 1965). A questo fine, e indipendentemente da Marsh, nel 1920 Antonio Stoppani propose una sorta di proto-ecologia (Stoppani, 1920), molto tempo prima che il campo venisse definito formalmente e che acquistasse militanza nella forma dell'ambientalismo (O'Riordan, 1976). In un certo senso, i disastri rappresentano una classe estrema dei fenomeni ecologici o umano-ambientali (vedi, ad esempio, Chandler, Cooke e Douglas, 1976). Non possono essere considerati veramente naturali, dato che la vulnerabilità umana non risulta spesso da uno stato puramente naturale, ma dalle decisioni di ubicazione basate su criteri socio-economici, e dato che l'intervento dell'uomo spesso risulta peggiorativo dell'impatto geofisico (ad esempio, quando un versante viene destabilizzato dalle attività di costruzione; vedi Leighton, 1976).

Una seconda influenza sul campo della 'disastrologia' è stata la crescente tendenza a spartire la saggezza umana in discipline, che a loro volta generano sub-discipline. Durante l'ottocento la geologia è emersa dal campo più nebuloso della filosofia naturale (Tinkler, 1987); nell'ultimo mezzo secolo, o meno, essa ha a sua volta, dato luogo alle sub-discipline della geologia tecnica, ambientale e urbana (Leveson, 1980; Coates, 1985). Le scienze biologiche ed atmosferiche hanno subito una simile riqualificazione, ma questo eccesso di divisionismo ha avuto un effetto piuttosto negativo sugli studi dei disastri. Ad esempio, una tromba d'aria disastrosa può essere considerata in termini della fisica del trasferimento del calore, della meteorologia della zona di confine (il 'boundary layer') dell'atmosfera, della logistica dell'evacuazione, dell'epidemiologia delle ferite traumatiche, della sociologia della percezione del rischio, o in tanti altri modi, ma in ogni caso il fenomeno è lo stesso (Stowe, 1984). In molti sensi, le opportunità per gli studi interdisciplinari sono molto più che le iniziative attualmente prese per unificare le varie specialità scientifiche esistenti adesso nel mondo intellettuale.

Il campo dei rischi e degli impatti di calamità naturale ha dovuto trovare la propria identità tra una larga gamma di gruppi e sub-gruppi della scienza, molti dei quali hanno parecchio in comune tra di loro ma spesso dei punti di vista, degli obiettivi, e degli approcci molto diversi. Purtroppo, la risposta alla crescente specializzazione scientifica è stata una tendenza alla frantumazione.


Quindi, nella 'disastrologia' le scuole di pensiero e di abilitazione possono essere così identificate:

(1) L'approccio geografico ha avuto inizio sessanta anni fa nei lavori fondamentali di Harland Barrows sull'adattamento ecologico delle popolazioni umane ai rischi naturali e in una monografia sulla percezione delle alluvioni scritta nel 1945 da Gilbert F. White (vedi Burton, Kates e White, 1968; White, 1973). I metodi delle scienze sociali vengono usati largamente ed enfasi viene prestata alla distribuzione spazio-temporale del rischio, degli impatti e della vulnerabilità umana (Palm, 1990).

(2) L'approccio sociologico avviene dai lavori seminali di Russell R. Dynes, Enrico L. Quarantelli, ed altri. La vulnerabilità e gli impatti vengono considerati in termini dei loro effetti sul comportamento umano e degli effetti dei disastri sulle funzioni delle comunità e sulla sua organizzazione sociale (Quarantelli, 1978; Drabek, 1986; Dynes, De Marchi e Pelanda, 1987).

(3) Lo studio dello sviluppo sociale ed economico ha condotto ad un particolare approccio ai disastri che colpiscono i paesi del Terzo Mondo, nel quale sono comprese questioni come la gestione dei profughi, il miglioramento delle condizioni sanitarie e la riduzione delle carestie. Particolare attenzione viene prestata ad aspetti logistici, come il trasporto dei viveri nei luoghi di carestia, e quelli epidemiologici, come il mantenimento della nutrizione (D'Souza, 1980; Cuny, 1983; Seaman, Leivesley e Hogg, 1984).

(4) L'approccio tecnico prevale tra gli scienziati naturali e fisici. L'enfasi viene prestata alla sismologia, alla vulcanologia, alla geomorfologia e ad altri aspetti preminentemente geofisici dei disastri (Bolt et alii, 1977). Questa scuola di pensiero è probabilmente quella che domina la progettazione e l'implementazione del Decennio Internazionale per la Riduzione delle Calamità Naturali (IDNDR, 1990-2000) sotto la direzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (U.S. National Research Council, 1987; Housner, 1989).

Chiaramente, le teorie ed i modelli prevalenti nello studio delle calamità naturali non sono riusciti ad evitare il nascere di nuove scuole di pensiero, piuttosto separate, che indirizzano la ricerca sullo stesso fenomeno. Quindi, considereremo alcuni concetti finora negletti per valutare la capacità che essi hanno di apportare un contributo all'unità fondamentale della 'disastrologia'.

Catastrofismo e neocatastrofismo

Un concetto che è caduto in disuso nelle scienze ambientali e della terra, ma che merita una riesaminazione nel contesto della 'disastrologia', è il catastrofismo e il suo equivalente moderno, il neocatastrofismo.


Il catastrofismo è stato uno dei temi più ricorrenti nelle scienze della terra e nel loro precursore, la filosofia naturale. Apparse nella Meteorologica di Aristotele, il Mundus Subterraneus di Athanasius Kircher (Amsterdam, 1665), i Discourses di Robert Hooke (Londra, 1688) e molti altri lavori antichi (vedi Alexander, 1989a). Inoltre, non era interamente assente dalle teorie dei gradualisti come Nikolaus Steno (Firenze, 1667), i nettunisti come Abram Gottlob Werner (Berlino, 1775), e i plutonisti come James Hutton (Edinburgo, 1798) (Chorley, Dunn e Beckinsale, 1964). Il lento sviluppo dei paesaggi naturali doveva essere riconciliato con le violente forze naturali che sporadicamente lo interrompevano e imponevano un nuovo assetto; una spiegazione doveva essere trovata per il vulcanesimo, la sismicità e le alluvioni, da una parte, e, l'esistenza delle forme di terreno troppo grandi, brusche o insolite per essere causate da processi di morfogenesi graduale, dall'altra. Prima dell'affermarsi delle scienze moderne nell'ultimo secolo, pochi pensatori (Voltaire rappresenta una rara e notevole eccezione) consideravano che l'età della terra potesse superare cento volte la durata media teorica della vita umana, e quindi le modifiche del paesaggio a scala grande richiedevano l'intervento delle forze cataclismiche (Tinkler, 1987). Fin quanto Louis Aggasiz non convertì William Buckland alla teoria glaciale, il Diluvio Universale era considerato una delle più effettive di tali forze.

Nel 1960 M. Gordon Wolman e John P. Miller presentarono una dimostrazione quantitativa che l'evento a corta o media scadenza (10**0-10**1 anni) è quello più capace di creare molti paesaggi fluviali e di cancellare gli impatti più profondi ma meno frequenti degli eventi di alta magnitudo (Wolman e Miller, 1960). Nell'ottica degli studi contemporanei dell'equilibrio dinamico, questo principio di magnitudo-frequenza è rimasto indiscusso fino a quando George H. Dury (1983) non ha proposto una rivalutazione del ruolo degli eventi di alta magnitudo, citando alcuni esempi importanti della persistenza a lunga scadenza (10**2-10**6 anni) dei loro effetti geomorfologici. Il Dury diede a questo il nome di neocatastrofismo. L'idea sta guadagnando credibilità, perché, mentre il vulcanesimo e la sismicità sembrano mancare di una periodicità coordinata (sebbene, quella individuale ci sia), uno dei loro risultati finali, l'orogenesi, sembra infatti essere regolarmente ricorrente a scala globale (Ritter, 1987). Inoltre, certi eventi molto grandi (come le grosse valanghe di detriti; Voight, 1978) spesso lasciano tracce che sono molto resistenti agli effetti modificanti degli eventi più piccoli e più frequenti (come la reptazione del suolo).


Quindi, il catastrofismo sembra essere capace di contribuire ancora alle scienze della terra moderne, sebbene in forma costretta dalla razionalità moderna. Ma ciò non è altrettanto vero per il lato umanistico della conoscenza, ovvero per le scienze sociali. Le società umane hanno acquistato notevole resistenza tanto da impedire alle calamità naturali di distruggerle ed annientarle. Ad esempio, mentre l'eruzione del Santorini, nel Mare Egeo nel 1500 a.C. (che causò terremoti, maremoti e l'estrusione di almeno 100 km3 di tefra) avrebbe potuto dare il colpo di grazia alla civilizzazione minoa, già in forte declino, e l'eruzione del Matoram nel 1006 d.C. avrebbe fatto altrettanto ad una cultura hindu-giavanese, in entrambi i casi ciò non è avvenuto come è dimostrato dalle evidenze archeologiche (Blong, 1984).


Infatti, è possibile che l'unica applicazione umanistica del catastrofismo sia nella psicologia: A.F.C. Wallace ha definito la sindrome del disastro come una reazione difensiva determinata dalla psicologia del paziente. I superstiti di una catastrofe ad impatto brusco che rimangono lucidi durante tutto il periodo seguente talvolta mostrano i sintomi di una chiusura spontanea al contatto percettivo con il loro ambiente, seguito da varie fasi lenti della ripresa del contatto. In questo contesto, il Wallace ha interpretato il disastro come una sorta di distruzione simbolica dell'intero mondo, come viene rappresentato dagli immediati riferimenti ambientali del soggetto che manifesta la sindrome (Wallace, 1956).

Il determinismo ambientale e l'ecologia umana


La saggezza moderna ci dice che 'l'uomo economico' non cerca di ottimizzare le sue opportunità in senso assoluto, ma invece tende a soddisfare i suoi bisogni secondo uno schema di 'razionalità circoscritta', ovvero di pragmatismo nei confronti dell'imperfezione della sua conoscenza rispetto alle attuali possibilità.[2] In modo simile, la causalità nel comportamento geografico dell'uomo è stata successivamente ridimensionata dal determinismo al probabilismo e al possibilismo, lasciando progressivamente più spazio per l'esercizio di azioni irrazionali e della libera scelta (Holt-Jensen, 1988). La rigidità del concetto di determinismo ambientale era la causa dell'abbandono, o dell'oscuramento, del concetto stesso come metodo di spiegazione. Però, a questo proposito sembra che ci sia un imperativo ambientale più grande per quanto riguarda i disastri che non altri fenomeni naturali. C'è, ad esempio, la ben conosciuta reazione di convergenza che i disastri producono, nella quale il personale, i volontari ed i parenti delle vittime vengono in gran numero alla zona d'impatto durante il periodo di emergenza seguente al disastro (Fritz, 1957; Alexander, 1990). C'è un elemento di predeterminazione in questa forte reazione.


Comunque, non si tratta di una sorta di 'fisica sociale', nella quale l'applicazione di un carico produce una reazione uguale e opposta. Quindi, malgrado la loro violenza perentoria, i disastri non possono essere determinanti assoluti della reazione e del comportamento umano. E` necessaria una formulazione più sottile, che abbracci alcuni dei principi dell'ecologia umana (Kates, 1971). Gli eventi estremi determinano l'inquadramento generale della reazione umana, ma non la risposta dettagliata. Ad esempio, la perdita di 60.000-80.000 vite nel terremoto del luglio 1990 in Iran nord-occidentale dimostra che le zone ad altissimo rischio sismico non sono prive di edifici asismici (Davis, 1983). Non c'è un 'darwinismo architettonico', nel quale solo gli edifici antisismici sopravvivono al disastro e quindi solo quest'ultimi vengono fabbricati durante la ricostruzione; invece, la vulnerabilità rimane alta e il comportamento umano rimane poco adattabile (la povertà e l'ignoranza sono tra le ragioni più importanti per questo; Davis, 1978).

Geograficamente, ci sono tre modi nei quali le zone ad alto rischio di calamità naturale vengono usate. Essi rappresentano tipi di adattamento umano-ecologico che sono diversi tra di loro per quanto riguarda la loro efficacia (Alexander, in corso di stampa):

(1) L'occupazione persistente della zone, malgrado il rischio, comporta tre alternative: (a) l'impiego delle misure di protezione, come gli sbancamenti degli argini dei fiumi o le norme di costruzione in zona sismica; (b) l'impiego soltanto di misure non strutturali, come il preavviso e l'evacuazione; (c) la negazione delle possibili misure di protezione (lo stato di massima vulnerabilità e di minimo adattamento).

(2) Coabitare con il danno causato dai disastri rappresenta uno stato di massima inerzia geografica. Così, negli insediamenti storici delle zone a rischio il tessuto urbano può mostrare l'evidenza di dissesti e di demolizioni parziali che sono risultati dagli impatti geofisici del passato.

(3) Abbandonare gli insediamenti danneggiati o distrutti, ma riubicarli nella stessa zona di rischio comporta uno stato di inerzia geografica secondaria. I motivi perché le zone di rischio non vengono abbandonate possono includere i fattori culturali (un senso di identificazione con l'area locale), le pressioni economiche (la povertà e la mancanza di alternative praticabili) o i benefici percepiti (il valore economico della zona).

Il rischio di calamità naturale entrerà nella cultura dei residenti della zona minacciata o esplicitamente, quando vengono adottate le misure di sicurezza e di difesa, o implicitamente, quando la paura delle conseguenze del disastro è latente, ma non viene esternata nella forma della mitigazione. In entrambi i casi, sia il rischio attuale che gli impatti del passato possono influenzare il comportamento della gente, le decisioni prese sull'ubicazione geografica, e l'organizzazione dello spazio del lavoro e della vita (Torry, 1978). Ad ogni modo, la presenza dell'inerzia geografica indica che è molto difficile liberarsi dalle vecchie fonti di vulnerabilità.

C'è quindi un chiaro potenziale per l'adattamento di alcuni concetti vecchi, come il catastrofismo e l'ecologia umana e in un modo limitato anche il determinismo, ai bisogni di una moderna scienza esplicativa. Adesso consideriamo fino a che punto una scienza che tratta dei disastri naturali si sia formata, e quale sia il suo potenziale sviluppo.

Valutazione del campo

Il bisogno di una scienza delle calamità naturali è indiscutibile. In termini sia del loro impatto fisico che dell'apposita risposta umana, le catastrofi naturali non sono meno ripetitive e replicabili di altri fenomeni che vengono studiati scientificamente, e quindi non sono meno suscettibili all'applicazione di teorie e di leggi (sebbene leggi statistiche, come in altri rami delle scienze inesatte). La scienza in questione dovrebbe unificare la teoria, basata su generalizzazioni verificabili, con le applicazioni pratiche indirizzate alla riduzione degli eventi ambientali d'impatto estremo.


Alcune regolarità offrono la base per una tale iniziativa, come segue:

(1) La maggior parte degli estremi eventi geofisici si ripetono ed i loro intervalli di ricorrenza sono prevedibili. Uno dei rapporti più comuni è

M = a + b.log R

dove M è la magnitudo degli eventi ed R è il loro periodo di ritorno (vedi Alexander, 1990). Le regolarità spaziali sono state studiate meno intensamente che quelle temporali, ma esse offrono un uguale scopo per la generalizzazione e per la formulizzazione dei modelli (Alexander, 1989b).

(2) Gli impatti dei disastri rispondono a due variabili causative: la magnitudo delle forze fisiche e quella della vulnerabilità umana. La prima può essere considerata una variabile veramente indipendente, mentre la seconda rappresenta un coefficiente parziale di determinazione (l'impatto essendo la variabile dipendente).

(3) Gli scienziati sociali hanno dimostrato che il comportamento sociale e la percezione umana durante gli eventi estremi sono regolari quanto i loro equivalenti nelle situazioni più pacifiche (Drabek, 1986). La sfida finora non accettata è quella di unificare le regolarità sociologiche e socio-psicologiche con quelle che prevalgono nelle scienze naturali e fisiche.

Chiaramente, la chiave allo sviluppo adeguato della 'disastrologia' risiede nell'interdisciplinarità, in particolare nel concentrarsi sul punto di contatto tra le specializzazioni scientifiche (ad esempio, tra la geomorfologia e l'architettura, la percezione umana e la vulcanologia, l'ingegneria ed il comportamento sociale). Questo richiederà un notevole richiamo all'ingenuità e all'inventività da parte di scienziati che non sono abituati a studiare le materie a loro poco familiari o di affrontare argomenti fuori del proprio campo.

E` quindi necessario ripensare la 'disastrologia' e lo studio dei rischi rispetto all'approccio corrente, che è molto frammentato, verso uno più unificato e perciò capace di far nascere delle coerenti teorie di applicabilità generale. La chiave a questo è di trattare i rischi ed i disastri naturali come fenomeni completi. Un'esaminazione generale della natura e dell'evoluzione dell'evento estremo, in altre parole della sua fenomenologia o problematica, determinerà quali sono le questioni più pressanti che esso crea, e quindi qual'è la combinazione di discipline e di metodi più adatta a risolverli. Questo richiederà la rieducazione degli studiosi nel senso sia teorico che applicativo, così che possano acquistare una conoscenza molto più larga ed integrata degli eventi naturali e delle loro conseguenze umane.


Quindi, l'attuale tendenza nelle scienze in favore di una crescente specializzazione e un fitto separatismo deve essere rovesciata in favore di maggior sintesi. Questa deve prendere in considerazione che i fenomeni disastrosi e le risposte umane possono generare dei continui e delle dicotomie. Alcuni dei più importanti di questi sono elencati nella Tabella no 1, ed è chiaro che la ricerca deve trascendere i continui e riunificare le divisioni. Soprattutto, gli approcci scientifici ed ingegneristici devono essere integrati con quelli socio-politici e socio-economici (Olson e Nilson, 1982). Molta attenzione quindi deve essere prestata alle seguenti questioni:

(1) Quale dovrebbe essere il ruolo della tecnologia (sia attuale e futura) nel miglioramento dei rischi di calamità naturale? Come si potrebbe migliorare la comunicazione transdisciplinare, integrando i processi tecnologici con quelli sociali, politici ed economici?

(2) Che cosa potrebbe, e dovrebbe, essere imparato da confronti interculturali, soprattutto tra i livelli di vulnerabilità delle nazioni più ricche e quelle più povere?

(3) Le calamità naturali possono essere trattate separatamente da altri impatti negativi sulla vita umana, come le guerre civili, l'inquinamento o le malattie?

Se i problemi della disastrologia devono essere risolti con l'applicazione di una metodologia esplicitamente interdisciplinare, la tecnologia dovrebbe essere applicata a delle situazioni che le permettono di ottimizzare la sua capacità di ridurre l'impatto umano ed economico causato dagli estremi eventi naturali. E` quindi essenziale assicurarsi che le iniziative correnti indirizzate a questo scopo non diventino solamente una fiera della tecnologia, soprattutto perché è potenzialmente più facile che un governo spenda il denaro pubblico su un bene altamente tangibile, come una rete di accelerometri, che su un bene di rilievo meno evidente, come un'indagine sui benefici che un investimento del genere può comportare.

In questo contesto, ci sono problemi sia di percezione che di paragone interculturale. Ad esempio, il vulcano colombiano Nevado del Ruiz entrava in eruzione il 13 novembre 1985, un mese dopo la conclusione di un'indagine dettagliata sui rischi associati con un tale evento. Malgrado questo, nei centri vicini al vulcano 22,000 persone morirono nelle colate di fanghi vulcanici quel giorno (i 'lahar'; Sigurdsson e Carey, 1986). E` chiaro che la concentrazione su un solo aspetto del rischio, in questo caso la vulcanologia anziché la protezione civile, può contribuire ad un aumento del pericolo anziché diminuirlo.

Inoltre, non si deve limitare la visione ai fatti determinati puramente dalla propria cultura. Circa l'80-90% degli impatti umani delle catastrofi avviene nei paesi in via di sviluppo, che tendono ad essere molto più vulnerabili delle nazioni industrializzate, le quali possono disporre di sostanziose riserve di capitale e di beni (Davis, 1978). Ad esempio, il terremoto del 1972 di Managua costava al Nicaragua il prodotto lordo nazionale di circa un anno (Ebert, 1982), mentre il sisma suditaliano del novembre 1980 costava soltanto il 3% del PLN italiano distribuito su 5 anni (Alexander, 1984). Entrambi questi disastri causarono circa 300.000 senza tetto. A questo proposito i contrasti sono particolarmente marcati tra l'America del Nord e quella del Sud: negli Stati Uniti la mortalità nelle calamità naturali è molto bassa, mentre nel 1970 nelle Ande del Peru una sola valanga detritica uccise 18.000 persone (Plafker e Ericksen, 1978).

In questo momento ci sono segni chiari che dare enfasi allo sviluppo e al trasferimento della tecnologia potrebbe non portare alla mitigazione delle calamità naturali come si spera. Per lo meno, bisogna valutare accuratamente come si può trasferire una tecnologia nei luoghi di bisogno che mancano di valuta estera, di personale addestrato e di reti di distribuzione dei pezzi di ricambio per farla funzionare. E` consigliabile destinare i fondi a una tale indagine prima di impiegarne altri su una nuova tecnologia.

In molti casi l'agente catalitico e il denominatore comune non è la tecnologia, ma la politica, che quindi non può essere ignorata nella ricerca dei modi di ridurre i rischi di catastrofe (Anon., 1983; Bommer, 1985). In questo contesto, si può mettere in esame la tendenza dei programmi di collaborazione internazionale di fornire le materie prime per il monitoraggio, la previsione e la mitigazione strutturale ma di lasciare l'implementazione interamente ai governi statali, i quali spesso non trovano sufficiente interesse per portare avanti i progetti. Ad esempio, il Foster (1980) descrisse le conseguenze disastrose del ritiro del Canada dal Sistema Circum-Pacifico di Preallarme di Maremoto (SSWWS).

Inoltre, c'è ancora una mancanza di informazione su come i sistemi socio-economici reagiscono al rischio, alla previsione, al preavviso e all'impatto. Invece di essere un'assoluta carenza degli appositi dati, è viceversa frutto di una eccessiva concentrazione su luoghi (soprattutto il sud della California) che non sono necessariamente rappresentativi di altre culture umane. Mentre si sono avuti importanti progressi nella considerazione dei gruppi di calamità che minacciano particolari zone, la maggior parte del mondo sviluppato (nel quale avvengono i maggior avanzamenti scientifici) è isolato contro i peggiori effetti dei rischi multipli, i quali non sono, da quest'ultimo, ben compresi. Tali rischi, invece, sono maggiori tra i paesi dove il conflitto civile o internazionale coesiste con il rischio delle calamità naturali o tecnologiche. E` difficile, e forse poco produttivo, ad esempio, tentare di determinare quanto il problema dei profughi nell'Africa sub-sahariana è conseguente alla siccità, alla politica economica, al conflitto armato o alla politicizzazione degli aiuti internazionali (Hogg, 1985). Infatti, il Terzo Mondo viene facilmente preso da un ciclo di 'povertà-repressione-militarizzazione', nel quale si deve inserire le calamità naturali per arrivare al giusto inquadramento del rischio attuale (COPAT, 1981; Alexander, 1990).

Conclusione

In fine, un 'hazard', ovvero il rischio di catastrofe, può consistere in qualsiasi dei fenomeni seguenti:

(1) calamità naturali di impatto brusco, come i terremoti o le trombe d'aria;

(2) disastri naturali di impatto lento, come l'erosione del suolo o la desertificazione;

(3) cambiamenti naturali dell'ambiente globale, come le fluttuazioni climatiche che hanno conseguenze negative per l'umanità;

(4) cambiamenti naturali indotti dall'uomo, come il riscaldamento globale;

(5) rischi tecnologici, come le emissioni di radiazione nucleare e gli scarichi di materiali tossici;

(6) epidemie di malattie, grossi incidenti industriali, disastri collegati al trasporto;

(7) deprivazione economica e carichi di debito internazionale;

(8) conflitto armato.

Quindi, è chiaro che le effettive riduzioni di vulnerabilità possono essere raggiunte soltanto se viene presa in considerazione la rischiosità del posto ('hazardousness of place'), ovvero l'intera gamma dei rischi riconosciuti ad ogni località. Si deve adoperare un approccio che tratta largamente di rischi multipli, anziché concentrarsi strettamente su quelli singoli.

Citazioni

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Tabella no 1: Continui, dicotomie e policotomie nello studio dei disastri

I CONTINUI NEI DISASTRI ED ASSOCIATI RISCHI:

eventi:

disastro antropico -- disastro naturale

disastro di impatto brusco -- disastro di impatto lento

emergenza a breve termine -- emergenza a lungo termine
(restauro) (ricostruzione)

organizzazione scientifica:

approccio tecnocentrico -- approccio ecocentrico

'natural hazards' -- geologia ambientale
(scienze sociali) (scienze naturali)

atteggiamenti ed approcci:

simbiosi con l'ambiente -- parassitismo (sfruttamento)

amplificazione del rischio -- riduzione del rischio

'optimizer' -- 'satisficer'

mitigazione -- laissez faire

fatalismo -- attivismo

determinismo ambientale -- probabilismo -- possibilismo

LE DICOTOMIE E LE POLICOTOMIE:

intervallo di ricorrenza -- scala del tempo per
per la maggior parte dei -- gli eventi geologici
disastri [10-1-102 anni] -- [103-109 anni]

previsione -- preavviso

impatto semplice -- disastro multiplo -- impatto secondario
[terremoto] -- [terremoto e maremoto] -- [incendio post-sismico]

adattamento -- aggiustamento

costi -- benefici

mitigazione strutturale -- mitigazione non-strutturale
[adeguamento degli edifici] -- [assicurazione]
_____________________________________________________________________

Note


[1] In questo schema tre termini inglesi non si traducono facilmente in italiano: 'hazard' riferisce al rischio generale, nel senso dell'evento disastroso sia prima che dopo dell'impatto; 'threat' vuol dire una minaccia, ovvero in questo caso un rischio che si materializza in forma concreta; 'aftermath' riferisce al periodo che segue l'impatto disastroso, cioè, quello dell'emergenza e della ricostruzione.

[2] La lettaratura anglofona parla dell'uomo economico come optimizer o satisficer, secondo la sua conoscenza delle opportunità economiche che si presentano e la sua capacità di sfruttarle. La conoscenza incompleta viene chiamata bounded rationality.