martedì 29 aprile 2008

Anticipando l'imprevisto: riflessioni sul maremoto indonesiano del 26 dicembre 2004




"La penna, nella nostra epoca, pesa più sulla scala sociale
della spada di un Barone medievale."
G.H. Lewes 1847 (marito della scrittrice inglese Mary-Ann Evans, detta George Eliot)

Il terribile seguito di un grande maremoto [1] storico nell'Oceano Indiano ci lascia con un senso di inadeguatezza e la sensazione che, quanto più imponente della spada sia la penna, è molto meno forte dell'onda marina sismica.

Mentre scrivo, 12 nazioni dell'Asia e dell'Africa stanno contando i loro morti, come stanno facendo anche 11 paesi occidentali da dove provenivano migliaia di visitatori all'area colpita. Il mondo sta soffrendo gli effetti di un evento per cui non era affatto preparato, oppure era pronto solo in termini molto generali, non per affrontare un disastro specificamente di questo tipo.

I grandi maremoti avvengono almeno una volta ogni dieci anni nel bacino dell'Oceano Pacifico, il quale vanta di un sistema di preavviso sottoscritto da ben 23 nazioni. Il rischio di maremoto non è, comunque, assente da nessuno degli altri bacini oceanici. La costa orientale della Scozia porta ancora i depositi di sedimenti lasciati quando fu ingolfato circa 60-65 milioni di anni fa dal grandissimo maremoto causato dall'impatto del meteorite che creò il cratere di 'Silverpit' in mezzo al bacino del Mare del Nord. La flotta di guerra minoa fu devastata dai maremoti che all'incirca del 1625 a.c. emanavano dall'eruzione del vulcano Santorini (Thera) in mezzo al bacino orientale del Mar Mediterraneo. Le onde che nel 1755 travolsero circa 20.000 abitanti di Lisbona, quando scapparono al porto per fuggire dagli effetti del terremoto e dell'incendio che avvolsero la città, raggiunse anche il Mar dei Caraibi. Comunque, se i grandi maremoti sono relativamente frequenti nel bacino del Pacifico, sono molto meno comuni negli altri oceani, e quando si trattava di pianificare l'emergenza le autorità di protezione civile in questi posti non li hanno preso abbastanza seriamente in considerazione.

Sul lato della placca birmana a mare della costa dell'Isola di Sumatra, alle ore locale 06,59 il 26 dicembre 2004 un sisma è venuto con magnitudo 8,9 e avendo una profondità ipocentrale di 10 km, parametri sufficienti di indicare un pericolo imminente di onda marina. Era il più grande evento sismico registrato dal 1964 e il terremoto di quell'anno avvenuto in Alaska, ed era uno si soli 5 terremoti delle stesse dimensioni accaduti nell'ultimo secolo.

Una tragedia immane come si è svolta in base a questo evento sismico merita un cambiamento di sostanza nel modo in cui la comunità mondiale affronta questo tipo di disastro, un salto di qualità rispetto al solito "disastro di turno". Purtroppo, nell'immediato dopo maremoto i primi segni non sono particolarmente incoraggianti. I mass media del mondo ricco sembrano dare più peso all'impatto sul turismo che al dramma dei popoli indigeni lasciati in situazioni di miseria drammatica. Come è consueto, i bollettini dei media perpetuano il mito che i corpi non sepolti costituiscono una minaccia alla salute dei superstiti e causeranno epidemie di malattie contagiose, una concezione ben sconfitta da anni di ricerca epidemiologica. Squadre di soccorso provenienti da diversi paesi attraversano il mondo, da arrivare solo dopo la fine del "periodo di oro" in cui le vittime possono essere salvate vive. Con lo scopo di evitare la trasmissione di malattie, le autorità locali seppelliscono le salme in fretta nelle fosse comuni: sembra che la pianificazione di mortalità di massa sia la Cenerentola della protezione civile, eppure essa ha importanti implicazioni per i sopravvissuti. [2] In linea con il tenore del dibattito pubblico, la comunità internazionale reagisce all'evento, non al suo significato più largo ne alle tendenze inerenti nel fenomeno.

Malgrado questi aspetti tristi, ci sono delle scintille di speranza. Ad esempio, influenti figure politiche hanno parlato di allestire un sistema di allarme contro i maremoti per tutta l'area dell'Oceano Indiano, in linea con quella che esiste nel bacino Pacifico da quasi mezzo secolo. L'idea merita un'ulteriore riflessione.

Non tutte le convulsioni geologiche che avvengono sotto il mare (terremoti, eruzioni vulcaniche, smottamenti) danno luogo a maremoti. Comunque, un sisma di una certa magnitudo dovrebbe destare uno stato di allerta, ad esempio quando la magnitudo supera 6,5 e la profondità ipocentrale è minore di 25 km. In sostanza, le onde di maremoto sono oscillazioni ellittiche, ricche di energia, che interessino l'intera colonna di acqua dalla superficie fino al fondo marino e che viaggino a velocità proporzionata alla profondità del mare. Questo significa che in mezzo ai bacini oceanici la velocità può essere di 500-800 km/hr. In tali condizioni le onde sono lunghe e basse, osservabili solo con strumenti scientifici. Quando arrivano alla costa esse crescono paurosamente spinte dalla conservazione dell'energia e dalla sua concentrazione in meno spazio in un mare meno profondo. In tutto questo ciclo, la strumentazione e la tecnologia necessaria per creare un sistema funzionante di preallarme esiste e funziona. I veri problemi sono finanziali, logistici, politici, sociali e dell'organizzazione.

Un sistema di preallarme per i maremoti richiede la distribuzione di una strumentazione standardizzata su una vasta area di mari e coste, con la trasmissione di dati via satellite ad un punto centrale di smistamento dove vengono praticate l'analisi e l'interpretazione dei dati in tempo reale. Un sistema del genere sarebbe costoso: solo la manutenzione necessiterebbe visiti periodici ai vari siti con viaggi attraverso distanze enorme, ad esempio a controllare un sensore sul fondo marino nelle Isole Andaman, o una boa a filo teso registrante vicino alla costa del Mauritius.

Il Sistema di Preallarme contro i maremoto del bacino pacifico (Pacific Tsunami Warning System, PTWS) ha avuto anche alcuni problemi politici. Per risparmiare pochi milioni di dollari, a meta degli anni '70 il Canada cancellò la sua sottoscrizione. Ma si ricongiunse al sistema pochi anni dopo in barba ad un maremoto che aveva creato ingenti danni ma di cui il preavviso non era stato comunicato. Malgrado questo monito, è probabile che i paesi poveri non avrebbero molta voglia di pagare un servizio che viene usato soltanto raramente, come sarebbe il caso nel preavviso di maremoti non nati nel bacino pacifico.

L'incentivo per allestire un sistema di allarme contro i maremoti, che sia rudimentale o meno, è che alcune ore vengano trascorse tra il momento in cui un brusco spostamento del fondo marino genera il moto delle acque e quello in cui la prima onda arriva su una costa lontano dal punto di "tsunamigenesi". Il fatto che il maremoto del 26 dicembre 2004 viaggiò più di 1700 chilometri dalla Sumatra alla Sri Lanka e fosse capace ancora di devastare le coste sull'altro lato dell'isola sottolinea la sua eccezionale potenza, ma esso indica anche un periodo di attesa che avrebbe potuto essere usato per diffondere l'allarme. Ma se l'allarme ci fosse stato, l'esito del disastro sarebbe stato diverso di quello che realmente è accaduto?

Un sistema di preavviso e allarme consiste in una serie di componenti tecnologici, organizzativi e sociali. Come notato sopra, la tecnologia di preallarme contro i maremoti e ben conosciuta. Alcuni modelli esistono in base ai quali l'organizzazione può essere allestita, ma l'aspetto sociale è quello più problematico. In essenza, un preallarme è utile soltanto: (1) se viene distribuito bene tra le popolazioni a rischio, le quali devono conoscere in pieno i rischi che corrono, (2) se le persone che ricevano un preavviso sanno bene cosa sta per accadere e che cosa devono fare per tutelare la propria incolumità, (3) se è fisicamente possibile raggiungere un posto sicuro prima dell'arrivo delle onde. I preavvisi di maremoto sono efficienti dove il terreno elevato è abbastanza vicino alla costa (oppure ci sono edifici robusti ed alti) in modo tale da poter ritirarsi in tempo: sulle pianure dell'Asia meridionale questo non è sempre il caso.

A causa della mancanza di familiarità con il rischio, e con le strategie di protezione, è solitamente difficile emettere preavvisi contro eventi rari. Questo fatto restringe le opportunità per decidere una strategia di sopravvivenza e auto-protezione. Inoltre, la cosiddetta "sindrome di invulnerabilità personale", come viene chiamata dagli psicologi, induce alcune persone a affrontare i rischi in modo sconsigliabile. Nel caso dei maremoti, la curiosità e l'inabilità di apprezzare il rischio alla propria persona potrebbe indurre alcune persone ad andare sulla spiaggia, anziché ai posti di riparo, come è successo più volte nelle Isole Hawaii e in California. Questo è potenzialmente un problema serio nei posti frequentati da turisti.

L'ignoranza di cosa significa un maremoto, e di come comportarsi in caso di allarme, è purtroppo comune nelle aree a rischio (comprese le coste italiane). Questa mancanza di conoscenza può addirittura assumere una veste storica; ad esempio, nel grande terremoto dell'Alaska del 1964 alcuni pescatori indigeni Aleut sono morti perché credevano, in base a storie tramandate da generazione in generazione, che nella sequenza di un maremoto ci siano soltanto due onde.[3] Sono morti quando sono tornati alla spiaggia prima dell'arrivo della terza e più grande onda nella sequenza. In altri casi, le persone rimangono inconsapevoli del grande allagamento che sta per arrivare anche quando vedono il mare ritirarsi, lasciando il fondo marino asciutto (circa un terzo dei maremoti raggiungono la costa per primo con il 'solco', non la cresta, della prima onda).

Dato che siano soltanto visitatori a corto termine, rispetto alla gente del posto i turisti hanno ancora meno probabilità di capire cosa sta succedendo in un maremoto e come dovrebbero reagire per salvarsi. Identificato come l'industria più grande del mondo, il turismo è particolarmente suscettibile all'impatto dei disastri. Per le economie in via di sviluppo, è una fonte volubile di sostenimento. Per di più, nei loro piani per la crescita del settore, le associazioni internazionali del turismo e i promovitori dell'industria nei paesi tropicali non hanno ancora dedicato sufficiente attenzione alla prevenzione dei disastri. In ogni probabilità questa indica una grande mancanza di resilienza quando arriva la catastrofe. D'altronde, i governi non possono facilmente giustificare l'erogazione di fondi alla salvaguardia dei turisti quando non riescono a proteggere sufficientemente i propri cittadini.

Un sistema di preallarme contro i maremoti per tutto il bacino dell'Oceano Indiano è tecnicamente fattibile, è possibile in termini organizzativi, ed è probabilmente non fattibile in termini sociali, sebbene qualsiasi tentativo di salvare le vite sarebbe benvenuto. Con un preallarme sarebbe comunque possibile salvaguardare dall'imminente allagamento alcuni impianti particolarmente a rischio, ad esempio le stazioni termoelettriche ubicate sulle coste e i sistemi costieri di trasporto. Quando si pensa delle battaglie che sono state condotte per far nascere e funzionare il Sistema di allarme del bacino del Pacifico, si è spinto a chiedere se la volontà politica sia sufficientemente sostenuta per creare qualcosa del genere nell'area sudasiatica. Le prospettive più incoraggianti per allestire un sistema di preallarme contro i maremoti esistono, probabilmente, in quei luoghi, come nello stato indiano di Andhra Pradesh, che subiscono piuttosto frequentemente l'approdo degli uragani, dove il monitoraggio dei maremoti e l'evacuazione in base all'allarme potrebbero essere combinati in modi creativi con gli allerti contro i cicloni. Dato che gli uragani arrivino con allagamenti dovuti ad onde marine, i rischi sono simili, sebbene disponendo di un diverso arco di tempo per lanciare l'allarme.

Queste riflessioni portano alla questione delle tendenze generali nei disastri e a quella del ruolo catalitico di un evento di dimensioni eccezionali. Anche se si prende in considerazione l'inflazione causata da cambiamenti nel modo in cui si misurano gli impatti, non c'è dubbio che il costo delle catastrofi stia andando verso livelli insostenibili. Il sistema socio-economico mondiale è ben abituato alla necessità di portare soccorsi dopo l'arrivo di un disastro; nel caso del maremoto indonesiano del 2004, le operazioni umanitari potrebbero essere le più grandi del genere mai lanciate. Comunque, non c'è mai stata un'uguale enfasi sulla prevenzione dei disastri. L'ultima catastrofe naturale a destare lo stesso tipo di dibattito di quello stimolato dal maremoto indonesiano era probabilmente Uragano Mitch, il quale colpì 8 stati centroamericani nel ottobre del 1998. In alcune zone di Honduras e Nicaragua i processi di sviluppo economico sono stati ritardati decenni da questo disastro, e la comunità mondiale è stata meno che generosa con i suoi aiuti. In conseguenza, poco è stato fatto per creare una buona resistenza al prossimo grande disastro. Si può solo sperare che da quell'epoca le lezioni siano state imparate, ma i segni non danno causa per l'ottimismo. Come accade nelle guerre moderne, una grande proporzione, forse anche una maggioranza, delle vittime e dei superstiti del maremoto indonesiano sono stati donne e bambini, le cui voci sono sempre meno potenti di quelle degli uomini.

In genere le grosse catastrofi naturali vengono a costare circa lo 0,2% annuale del PLN dei paesi ricchi e forse il 10-16% di quello dei paesi che sono economicamente svantaggiati (in rari casi il costo può addirittura superare il PLN di un anno di tali paesi). Dato che l'investimento, la speculazione finanziaria e la produzione dei beni possano essere facilmente trasferiti in altri paesi, solitamente i costi dei disastri non sono assorbiti in pieno dal sistema finanziaria mondiale. Comunque, prima o poi, un disastro avverrà con magnitudo e effetti tali da cambiare questa realtà. A quel punto, la comunità mondiale attraverserà la soglia verso un approccio nuovo e più responsabile ai disastri.

Al punto di tempo in cui scrivo (gennaio del 2005), non è chiaro che la devastazione delle coste di 12 nazioni asiatiche sia sufficiente per effettuare il cambio di atteggiamento e di organizzazione descritto sopra. Le prime stime dei costi, 14 miliardi di dollari statunitensi, sono relativamente basse (soltanto il crollo delle torre gemelle a New York è costato almeno 87 miliardi di dollari: questa discrepanza sottolinea il fatto che la somma delle sofferenze nel mondo non possa essere misurata in termini di denaro). Sembra, però, molto probabile che il cambiamento avverrà entro 15-20 anni, possibilmente in base ad una grossa eruzione vulcanica, un grosso incidente nucleare o un terremoto con fortissime conseguenze. Magari nemmeno le eccezionali cifre di mortalità sismica attese nelle "megacities" come Teheran e Istambul sarebbero in grado di provocare la reazione economica "a catena" che possa cambiare profondamente per il meglio la strategia mondiale contro i disastri. Ciò nondimeno, gli ingredienti del dramma stanno lentamente, inesorabilmente mettendosi insieme: l'aumento della vulnerabilità delle popolazioni, soprattutto povere; la complessità tecnologica e sociale del mondo moderno; la fragilità economica e lo scontento popolare.

Data la minaccia alla sicurezza dei vari paesi posta dalle grosse catastrofi come il maremoto indonesiano, vedremo un rapido ricorso alla cosiddetta "diplomazia del disastro", un fenomeno nato con gli aiuti reciproci scambiati dopo successivi terremoti in Grecia e Turchia? Il bisogno è evidente, dato i problemi di fornire aiuti umanitari ad aree in stato di conflitto, quali la provincia indonesiana di Aceh e la penisola di Jaffna in Sri Lanka. L'Indonesia, tra altro, ha una storia sanguinosa dell'impiego di politiche di migrazione forzata usate per distribuire la sua popolazione da aree fortemente insediate a quelle con insediamenti più sparsi.

Il maremoto indonesiano è arrivato a meno di un mese dal mega convegno dell'ONU sulle calamità naturali nel mondo, che si svolgerà a fine gennaio del 2005 a Kobe in Giappone, teatro di un rovinoso terremoto dieci anni fa. Comunque, la Strategia Internazionale per la Riduzione dei Disastri, il ramo dell'ONU che bada alle politiche contro le catastrofi, non è una forza particolarmente potente nell'arena globale. La risposta alla questione di se il mondo abbia capito il significato dei disastri futuri per la vulnerabilità delle popolazioni umane resta, io credo, in due misure. La prima di queste è lo stato di salute e nutrizione dei superstiti del maremoto indonesiano. Non c'è bisogno che le epidemie e le ondate di malnutrizione prendano posto sulle coste dell'Asia se la comunità mondiale riesce a mantenere l'attenzione sui bisogni dei superstiti fino a che non possano tutelare se stessi. La seconda prova domanda se il convegno ISDR non farà altro che reagire agli attuali eventi oppure se ci sarà abbastanza volontà politica nel mondo per impegnare grosse risorse ad un uso puramente ipotetico: evitare o ridurre gli impatti di disastri ancora da venire--"E quindi non andare mai a chiedere per chi suona la campana, suona per te." [4]

Note

[1] Maremoto: tsu'nami--giapponese per 'onda di porto', plurale tsunami; queste onde possono essere chiamate 'onde marine sismiche', ma sono determinate da eruzioni, terremoti o smottamenti, non da tempeste o maree.

[2] Ad esempio, le autopsie, la certificazione di morte, il trasferimento di diritti pensionali, i riti religiosi e funebri, l'effetto sul morale dei superstiti, e il conteggio dell'impatto.

[3] Sembra che nel maremoto indonesiano del 26 dicembre 2004 la seconda onda sia stata quella più alta, un fatto sfortunato per circa 1000 persone che siano annegate dopo di essersi rifugiate in un treno, il quale è stato travolto dalla seconda onda. Una sequenza di maremoto può consistere in una mezza dozzina di grosse onde.


[4] "And therefore never send to know for whom the bell tolls; it tolls for thee" -- John Donne, Devotions upon Emergent Occasions (1624), XXVII.