sabato 18 dicembre 2010

Firenze con le catene (fisicamente e metaforicamente)


Il 17-18 dicembre 2010 sono partito da Lund, nell'Öresundsregion della Svezia, ho pernottato a Copenaghen e sono arrivato a San Casciano (provincia di Firenze), tramite gli'aeroporti di Copenaghen e Fiumicino e i centri di Roma e Firenze. In tutti questi posti, tranne Roma, nevicava fortemente. A Lund i trasporti pubblici circolavano normalmente, salvo la ferrovia, dove c'erano problemi legati all'apertura alla nuova galleria sotto Malmö, ma non al maltempo. A Kastrup, l'aeroporto di Copenaghen, i voli procedevano con fatica ma tranquillità con l'uso di "normali" procedure speciali. A Firenze c'era un casino di macchine abbandonate, strade non sgomberate dalla neve, gente che lamentava, persone che tentavano di fissare le catene sulle ruote delle proprie vetture in mezzo al traffico, e così via. E anche un'aria di essere meravigliati (malgrado le sei grosse nevicate dell'inverno scorso).


E' giusto notare che la Scandinavia è più attrezzata e organizzata perché ha contatto più pesante e regolare con il maltempo. E' anche giusto notare che il 17 dicembre Firenze è stato afflitto da una nevicata umida, abbondante, rapida e poco prevista. Ma ciò che è accaduto a Firenze in quel pomeriggio di dicembre è stato abilmente analizzato dallo studioso J.F. Rooney nel lontano 1967 (per Chicago, ma quasi esattamente come è successo nella prima città toscana). In altre parole, non era una situazione così insolita, e si spera che nel frattempo il capoluogo dell'Illinois abbia imparato le apposite lezioni.


Mentre la toscana era alle prese con la neve, l'Inghilterra si trovava piuttosto impreparata e anche lì volavano le accuse. Per coincidenza, la strategia del Governo Britannico per affrontare le emergenze invernali è stata pubblicata in questi giorni (UK Department for Transport 2010). L'associato sito web....

http://transportwinterresilience.independent.gov.uk/docs/final-report/

....contiene analisi tecniche ed economiche del problema come allegati ad un autorevole rapporto di 148 pagine. E tutto questo è frutto di uno studio indipendente, cioè non influenzato da fonti politiche e governative, ma dotato di oggettività e chiarezza di visione. Può darsi che il problema non sia ancora risolto, ma la strada alla soluzione è aperta e sgomberata da preconcetti.


La soluzione alle periodiche agonie che soffriamo in questi avvenimenti invernali resta nella pianificazione, un processo di abbinamento dei problemi di emergenza da risolvere con le risorse a disposizione (Alexander 2002). Ma in Italia, realmente, chi pianifica? Dei piani che esistono, c'è corrispondenza e interoperabilità tra livelli, servizi e settori? Non credo. Si affronta i problemi umani dell'emergenza in modo solido e sostenuto? In 36 anni di frequentazione del Bel Paese non ricordo un'occasione in cui le ferrovie italiane, ad esempio, abbiano fatto un buon lavoro di erogazione dell'informazione ai passeggeri quando ci sono disagi e interruzioni al servizio.


Seguendo l'analisi di Rooney (1967), aggiungiamo questa sequenza al registro dei rischi:
  • accade un'abbondante nevicata senza adeguata previsione e preavviso
  • la crisi inizia molto rapidamente durante un Venerdì pomeriggio nella stagione delle feste quando molta gente è in movimento
  • la neve è umida e pesante
  • e quindi si elenca le misure da prendere per garantire una rapida e efficace reazione.

Ops! Mi ero dimenticato che non esiste il registro dei rischi. Vedi UK Cabinet Office (2010) per un esempio di un tale strumento.

Colgo l'occasione per salutare con rispetto tutti gli operativi della protezione civile in toscana che hanno lavorato con grande impegno e sacrificio durante questa crisi. Meritate più sostegno da fonti ufficiali.

Citazioni

Alexander, D.E. 2002.
Principles of Emergency Planning and Management. Oxford University Press, New York, 340 pp.

UK Cabinet Office 2010. National Risk Register of Civil Emergencies. HMSO, Londra, 56 pp.

Rooney, J.F., 1967. The urban snow hazard in the United States: an appraisal of disruption. Geographical Review 57: 538-559.

UK Department for Transport 2010. The Resilience of England’s Transport Systems in Winter: An Independent Review.
Final Report, October 2010. HMSO, Londra, 148 pp.

lunedì 19 aprile 2010

Ceneri vulcanici e la cessazione dell'aviazione civile in Europa



Scrivo questi appunti in mezzo ad una crisi senza precedente che comprende il più lungo stato di fermo obbligatorio (groundstop) della storia dell'aviazione civile in Europa. Scrivo da un alloggio di fortuna mentre aspetto la possibilità di tornare in Italia da Londra. Mentre sarebbe troppo presto trarre conclusioni da questo avvenimento, alcune osservazioni preliminari possono essere fatte.

Le forme di eruzione vulcanica esplosiva denominate vesuviana, pliniana e ultrapliniana sono in grado di penetrare la stratosfera e iniettare ingenti quantità di minuscoli particelle di vetro vulcanico, le quali possono rimanere sospese per parecchi giorni. Inoltre, come ha dimostrato l'eruzione del vulcano messicano El Chichón nel 1982, anche i gas vulcanici come l'acido solforico, possono danneggiare severamente gli aerei (Bernard e Rose 1990).

Gli incidenti più discussi sono quelli del 1982 quando due velivoli Boeing 747 in volo da Giacarta all'Australia che hanno sofferto lo spegnimento dei motori e una rapida e involontaria discesa quando hanno volato nel piume di ceneri prodotto dall'eruzione di Galunggung (Tootell 1985) e quello del 1989 in cui un Boeing 747-400 ha subito un analogo impatto (con US$80 milioni di danni) mentre passava in mezzo ai ceneri dell'eruzione di Redoubt Volcano (Casadevall 1994a), Alaska. In tutte e tre casi, l'incidente ha raggiungo il livello 4 su una scala (la "Ash Encounter Severity Index", AESI--ICAO 2001) da 0 a 5 (scontro dell'aereo) di pericolo al volo di fronte a effetti vulcanici.

Comunque, in 25 anni sono 8 incidenti di livello 4 sono successi (ICAO 2001), in confronto con 43 di livello 2 (danni moderati, ma funzionalità del velivolo non compromesso). Questi sono i tipi di impatto sugli aerei riscontrati (Casadevall 1994b):

* danni ai rotori dei motori a reazione
* abrasione dei vetrini della cabina di controllo
* abrasione delle superficie del velivolo, abbassando le sue prestazioni in volo
* compromissione del funzionamento della strumentazione a bordo
* danni ai sistemi di raffreddamento e di aria condizionata
* contaminazione del carburante.

Gli effetti sono potenzialmente catastrofici (Grindle e Burcham 2003), ma non è ancora successo un disastro di livello 5 dell'AESI, malgrado l'eruzione ogni anno di ben 50 vulcani su 500 potenzialmente attivi, e l'ubiquità dell'aviazione civile nel mondo.

Per iniziare, la sicurezza dell'aviazione civile di fronte all'emissione delle ceneri da vulcani in eruzione è un problema ben conosciuto che vanta di 25 anni di studio e diversi manuali (Shun et alii 2009) e simposi (Casadevall 1994b). I lavori pubblicati comprendono studi della teleosservazione delle eruzioni finalizzata al preavviso (ad es. Corradini et alii 2008), studi di particolari situazioni (ad es. Casadevall et alii 1996) e piani di emergenza per affrontare situazioni di particolare rischio o contingenza (ad es. CNMI 2009). Esiste un modello matematico di simulazione e monitoraggio del problema, PUFF, il quale segue la dispersione delle ceneri nell'atmosfera con una formulazione Lagrangiana di avvezione, caduta e diffusione turbolente (Searcy et alii 1998).

Il rischio costituito dai vulcani islandici è ben conosciuto (Pieri et alii 2002), ma in Europa del nord a metà aprile del 2010 si riscontra una notevole mancanza di pianificazione e una tendenza iniziale a sottostimare il rischio. Così, il registro nazionale dei rischi, vitale documentazione di pianificazione di emergenza del Governo Britannico (UK Cabinet Office 2010), non parla del rischio vulcanico all'aviazione. Infatti, l'unico rischio all'aviazione affrontato in tale documento è quello del terrorismo.

Riguardo l'eruzione di Eyjafjallajökull, il governo britannico ha convocato il livello "platino" di comando e controllo (COBRA, Cabinet Office Briefing Room, il livello più alto del sistema di protezione civile) alle 08 e 30 di Lunedì 19 aprile, per una crisi che ha avuto inizio a mezzogiorno di Giovedì 15 aprile. Il ritardo, a mio avviso, evidenzia una tendenza a sottostimare la crisi, una forma di normalcy bias (Omer and Alon 1994) collettivo del Governo e dei gestori della protezione civile nazionale.

Non esiste sufficiente trasferibilità tra i vari mezzi di trasporto pubblico (aereo, treno, pullman, traghetto, ecc.), e non esiste in Europa un piano di contingenza per spostare masse di persone rimaste ferme per la cessazione di uno dei mezzi di trasporto. Il risultato è una risposta molto debole e inefficiente. Nel frattempo, alcune esigenze di spostamento, ad esempio il trasporto di midollo osseo da trapiantare, mettono vite umane in pericolo.

Nel Regno Unito il governo e i mass media parlano molto del rimpatrio dei cittadini britannici rimasti all'estero. Ma secondo qualsiasi principio di equità nei soccorsi dovrebbero parlare dello spostamento di tutte le persone in difficoltà.

Come stanno dicendo i rappresentanti dell'industria dell'aviazione civile, sembra che la strategia di chiusura totale degli aeroporti in fino a 22 paesi dell'Europa sia stata basata sull'avversione al rischio (Schneider 2006), più che sull'analisi accurata della situazione, la quale è arrivata dopo. L'uso di modelli di diffusione e della teleosservazione produce risultati sinottici e comprensivi, ma non necessariamente decisivi. A bassa concentrazione di ceneri è probabile che il problema maggiore sarebbe quello della manutenzione di superficie, strumenti e attrezzi soggetti all'abrasione e all'accumulo di particolati. Ma con il passo del tempo i costi dell'affrontare i rischi di volo diminuiscono rapidamente sotto quelli delle perdite quotidiane di guadagno per passeggeri trasportati.

In conclusione, ciò che serve è un piano europeo per affrontare futuri rischi all'aviazione dovuti alle eruzioni pliniane, e, dato vulcani come Vesuvio, Vulcano e Santorini, non soltanto in Europa del nord. Tale piano dovrebbe prescrivere rapida e decisiva azione, che comprende l'accurato monitoraggio scientifico del rischio e la programmata sostituzione dei modi di trasporto per meglio garantire lo spostamento delle persone che hanno necessità inevitabile di spostarsi.

Citazioni

Bernard, A. and W.I. Rose Jr 1990. The injection of sulphuric acid aerosols into the stratosphere by the El Chichón volcano and its related hazards to the international air traffic. Natural Hazards 3(1): 59-68.

Casadevall, T.J. 1994a. The 1989–1990 eruption of Redoubt Volcano, Alaska: impacts on aircraft operations. Journal of Volcanology and Geothermal Research 62(1-4): 301-316.

Casadevall, T.J. (ed.) 1994b. Volcanic Ash and Aviation Safety: Proceedings of the First International Symposium. U.S. Geological Survey Bulletin no. 2047, 450p.

Casadevall, T.J., P.J. Delos Reyes and D.J. Schneider 1996. The 1991 Pinatubo eruptions and their effects on aircraft operations. Fire and Mud: Eruptions and Lahars of Mount Pinatubo, Philippines. US Geological Survey, Philippine Institute of Volcanology and Seismology, Manila.

CNMI 2009. Interagency Operating Plan for Volcanic-ash Hazards to Aviation in the Pacific Region of the Northern Mariana Islands. Commonwealth of the Northern Mariana Islands Emergency Management Office, Guam, 29 pp.

Corradini, S., C. Spinetti, E. Carboni, C. Tirelli, M.F. Buongiorno, S. Pugnaghi and G. Gangale 2008. Mt. Etna tropospheric ash retrieval and sensitivity analysis using Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer measurements. Journal of Applied Remote Sensing 2: paper 023550.

Grindle, T.J. and F.W. Burcham Jr 2003. Engine Damage to A NASA DC-8-72 Airplane From a High-Altitude Encounter with a Diffuse Volcanic Ash Cloud. Technical Manual NASA/TM-2003-212030. NASA Center for Aerospace Information, Hannover, Maryland, 22 pp.

ICAO 2001. Manual on Volcanic Ash, Material and Toxic Chemical Clouds. Document no. 9766-AN/954. International Civil Aviation Organisation.

Omer, H. and N. Alon 1994. The continuity principle: a unified approach to disaster and trauma. American Journal of Community Psychology 22(2): 273-287.

Pieri, D., C. Ma, J.J. Simpson, G. Hufford, T. Grindle and C. Grove 2002. Analyses of in-situ airborne volcanic ash from the February 2000 eruption of Hekla Volcano, Iceland. Geophysical Research Letters 29(16): 19.1-19.4.

Searcy, C., K. Dean and W. Stringer 1998. PUFF: a high-resolution volcanic ash tracking model. Journal of Volcanology and Geothermal Research 80(1): 1-16.

Schneider, T. 2006. Risk aversion: a delicate issue in risk assessment. In W.J. Ammann, S. Dannenmann and L. Vulliet (eds) Risk 21: Coping with Risks Due to Natural Hazards in the 21st Century. A.A. Balkema, Taylor and Francis, London: 59-66.

Shun, C.M., I. Lisk, C. McLeod and K.L. Johnston 2009. Meteorological services to aviation. Bulletin of the World Meteorological Organization 58(2): 94-103

Tootell, E. 1985. "All Four Engines Have Failed": The True and Triumphant Story of Flight BA 009 and the Jakarta Incident. Pan Books, London, 178 pp.

UK Cabinet Office 2010. National Risk Register of Civil Emergencies. Cabinet Office of the United Kingdom Government, London, 56 pp.

mercoledì 17 marzo 2010

Protezione civile italiana: il vero stato dell'arte


In Italia ho sentito dire spesso "la nostra protezione civile è la migliore del mondo". Ho anche sentito il dottor Bertolaso dire davanti ad un pubblico italiano che era stanco di ascoltare a questo tipo di auto congratulazione. Un tempo questa osservazione poteva essere vera, in quanto altri paesi non erano dotati di un elevato livello di sviluppo del settore. Ma ora?

Tutto sommato, in Italia il modello dell'organizzazione atta ad affrontare i grandi eventi è fondamentalmente ben pensato ed è dotata di solida fondamenta. Esso possiede alcune doti particolarmente preziose, quali:
- il sindaco, capo della protezione civile locale, è eletto dalla popolazione e costituisce un legame diretto con il popolo assistito;
- giuridicamente la protezione civile è un servizio quotidiano fondamentale, alle pari con altri servizi municipali e statali;
- il volontariato, preziossisma risorsa basilare, costituisce un altro essenziale legame con i beneficiari, ovvero la popolazione;
- l'organizzazione è capillare in modo ininterrotto da Roma all'ultimo comune;
- l'Italia ha denaro e quando arriva un "grande evento" non ha paura di spenderlo.

Ma tutto questo non è più eccezionale come una volta:
- in questo settore la Svezia è riuscita a fare più progresso in 11 mesi e mezzo che l'Italia abbia fatto in 30 anni (basta ricordare la legge 996 del 1970, non ancora pienamente attiva nel 1984);
- la Gran Bretagna ha un sistema di comando e controllo molto più ben articolato di quello italiano;
- inoltre, tramite una buona e moderna legge nazionale di base in materia di protezione civile il Regno Unito ha coinvolto il settore privato nella difesa dalle catastrofi molto meglio rispetto all'Italia;
- la Gran Bretagna obbliga comuni, contee e regioni di avere, non solo piani di emergenza, ma anche in parallelo piani di continuità delle loro attività (perciò nella Emergency Planning Society britannica ci sono 2.500 iscritti), mentre in Italia la BCM non è sviluppato nemmeno nelle aziende private;
- i Paesi Bassi hanno un sistema di comunicazione e rapida reazione molto più avanzato di quello italiano: con una cultura di coinvolgimento del popolo nella preparazione per le emergenze che vanta di 57 anni di sviluppo quotidiano, gli olandesi sono molto evoluti anche in questo;
- il livello di eccellenza tecnologica e manageriale è superiore in Korea del Sud;
- la meticolosità della prevenzione di catastrofi idrogeologiche a Hong Kong è da sognare in Italia;
...e così via.

In Italia, esiste una protezione civile che spende 70 milioni di euro al mese sui grandi eventi ma in 15 anni non è stato capace di emettere linee guida nazionali di formazione.

Le linee guida di pianificazione sono arretrate di 12 - 16 anni e non riflettano la realtà di un paese che è cambiato, soprattutto riguarda il ruolo della sussidiarità.

Secondo il sito Internet dell'ONU, reliefweb.int, in Gran Bretagna 32 università offrono corsi in disaster management, tipicamente la laurea superiore di Master of Science: in Italia Reliefweb elenca solo una università, e a dispetto del sistema accademico mondiale, il master non è neanche una laurea.

Il 30 dicembre 2009, il governo Berlusconi emette un decreto in cui, nascosto in mezzo, un articolo dispone la privatizzazione del Servizio di Protezione Civile nazionale. La mia analisi di questo si trova su emergency-planning.blogspot.com, rigorosamente in lingua inglese. Il decreto apriva la porta, già spalancata, a raffiche di corruzione. Buttava dalla finestra idee di trasparenza, controllo democratico, etica e welfare. Alla mia costernazione, Il paese, forse narcotizzato dalla televisione del Premier, per svariate settimane non si accorgeva nemmeno di questo atto. Poi, tutto ad un tratto le cose si girano nell'altro senso. Si scopre che la privatizzazione è la cima del iceberg, e sotto, molti altri casi di malamministrazione sono collegati alla protezione civile.

Come ho scritto nel medesimo blog, in questo settore, gli scandali sono ciclici. Nel 1999 c'era da mandare via Professor Franco Barberi e imputare reati, risultati per la maggior parte inesistenti o insignificanti, ai suoi fedeli. Adesso c'è da rifare i conti nella stessa maniera. Nel 1999 nasce la Agenzia di Protezione civile, e muore in tre mesi; nel 2010 nasce la Protezione Civile SpA, e muore in meno di tre mesi.

Sotto tutto questo casino c'è la politica. Ma la motivazione di fondo della protezione civile è di fornire assistenza alla popolazione irrispettivemente delle considerazioni politiche. E' un settore della pubblica amministrazione che ha il dovere morale di essere apolitica, o per lo meno di esistere al di sopra della politica. E per questo deve essere essenzialmente e sempre pulita. Ma, a giudicare da ciò che scrivono i giornali, di fronte alle grandi spese ci sono troppe tentazioni.

Una cosa in cui la protezione civile italiana, agenzia o Società per Azioni o quello che sia, enfaticamente non è eccellente è la prevenzione. Il progresso in questo settore è minuscolo. Può darsi che sia compito di altri enti del governo italiano, ma nemmeno loro hanno fatto progresso.

Giorni fa ho visto un cittadino, di fronte alla propria casa, parzialmente smantellata da una frana, arrabbiarsi per la mancanza o la lentezza dell'assistenza fornita dal governo. Dunque, sono pienamente a favore del welfare, ma pensate al sillogismo:
- il cittadino decide di costruire la propria casa in un posto che risulta franoso;
- avviene un movimento franoso;
- la casa viene danneggiata;
- ergo, la colpa è del governo.

Magari, ma in moltissimi casi no. La tentazione di scaricare la responsabilità viene innaffiata da successivi governi, di destra e sinistra, che vengono sedotti dalla possibilità di guadagnare voti sprecando risorse pubbliche arbitrariamente e sopprimendo la tendenza del cittadino ad assumere responsabilità per le proprie azioni. A mia sorpresa, malgrado l'ostile clima finanziario (e fiscale), l'assistenzialismo è ancora vivo, anzi, è fiorente. Di conseguenza non si spende sulla prevenzione. Infatti, all'alba della nuova grande epoca di Disaster Risk Reduction mondiale, l'Italia è presente sul palco internazionale con iniziative così flebili e mal pensate che potrebbero non esistere mica.

Il ritratto che ho dipinto è colorato di nero, ma lo possiamo vedere in due modi. Quello negativo e di alzare le mani, voltare le spalle e fare nulla, vivendo nella paralisi caratteristica delle persone politicamente impotenti. Quello positivo è di rinnovare la lotta per una protezione civile come si deve. Questo si può fare, perché la sana protezione civile nasce da iniziative piccole e umili, ma che sono, infine, capaci di indicare la buona strada e seminare la buona pratica. Più difficile, più inaccettabili sono le circostanze, più che si deve lottare per un futuro più sano, più razionale, più prudente, più ben progettato.

giovedì 28 gennaio 2010

Riflessioni sul terremoto a Haiti del 12 gennaio 2010



Al momento di scrivere queste parole, ancora una volta un grande disastro sismico è appena successo in un paese afflitto da povertà e destituzione. Haiti è una nazione di 10 milioni di abitanti, la più povera nell'emisfero occidentale. Essa gode il rango di 149 su 182 paesi elencati nell'indice di sviluppo umano (human development index) dell'UNDP, di un reddito pro capite di $610, di una durata media della vita di 61 anni e di un'analfabetismo tra adulti del 38%. Le statistiche, comunque, sono troppo aride da poter spiegare le sofferenze inerenti in questa situazione. Inoltre, Haiti è soggetta a frequenti alluvioni e talvolta a uragani, come Jeanne del 2004. Non aveva avuto un grande terremoto quasi dalla sua fondazione, ovvero dal 1770, ma così si trova nei 'gap' sismici dei margini delle zolle tettoniche, le zone dove la deformazione della crosta terrestre aumenta al punto di una gigantesca e brusca rottura.

Il terremoto del 12 gennaio 2010 era potente (M=7,1), poco profondo di ipocentro (il punto iniziale di rottura della crosta terrestre), e con un epicentro a soli 16 km da Port au Prince, un'area metropolitana che contiene il 20% della popolazione nazionale. Scrivo solo tre giorni dopo la catastrofe, ad un punto in cui non esiste ancora indicazione delle cifre di mortalità e morbosità. Probabilmente queste quantità non verranno mai stabilite con accuratezza, tali sono i problemi di raccolta dei dati un un paesi come Haiti.

Mentre nei paesi ricchi, i grandi disastri possono assorbire qualcosa come lo 0.2% delle risorse nazionali, la proporzione può essere ordini di magnitudo più grande nei paesi poveri. Sia Haiti che Nicaragua hanno trovato il loro sviluppo economico ritardato di decenni a causa della devastazione causata dai disastri naturali, compresa la perdita di occupazione, infrastruttura ed altri beni di rilievo nazionale, e un carico insopportabile di ripristino e ricostruzione. Infatti, con l'aggiunta di instabilità politica e militare, e di corruzione, alcune parti di Managua, Nicaragua, non sono ancora state ricostruite dopo il terremoto del 1972.

In un senso più positivo, l'avvenimento di una grande catastrofe naturale (un fenomeno politicamente neutro, si nota) offre una buona opportunità di rinforzare i processi di riconciliazione e costruzione di governance tramite l'esercitazione a livello internazionale di "diplomazia dei disastri", una neodisciplina ormai quasi radicata. D'altronde, la comunità internazionale non ha ancora mostrata grande interesse nell'investire pesantemente nella prevenzione dei disastri, neanche quando grandi eventi hanno graficamente dimostrato il fabbisogno. Ad esempio, quando Uragano Mitch colpì 8 nazioni dell'America Centrale e dei Caraibi, i paesi ricchi organizzarono un pacchetto di aiuti del valore di meno del 3% di quello che contemporaneamente stessero spendendo sul salvataggio degli investitori dei hedge funds di Wall Street, in effetti il salvataggio dei giocatori di azzardo finanziari falliti. Si spera che la nuova enfasi sulla riduzione dei rischi di disastro (disaster risk reduction, DRR) nelle strutture internazionali per affrontare il cambiamento del clima possano avere effetti beneficiali anche per quanto riguarda ridurre gli impatti dei terremoti.

La vulnerabilità ai disastri è una proprietà innata delle persone e delle cose che è difficile di misurare. Per analogia, come la frizione è mobilitata da eventi. Quindi essa si concretizza come impatto quando i pericoli diventano disastri. Bruscamente, la vulnerabilità sismica di Haiti viene rivelata nel seguito di un impatto catastrofico che ha causato distruzione su una scala che si vede solo raramente (potrebbe essere sorpassata in pochi altri posti del mondo, tra cui Teheran, Istambul, Katmandu e Tokio). A Port au Prince molti degli edifici più strategici sono crollati, compresi il Palazzo Nazionale, l'Ospedale di Pétionville e il quartiere generale delle forze ONU, UN MINUSTAH. I baraccopoli dei poveri sono stati devastati un una maniera che raramente si vede nelle forme più sostanziose e permanente dell'edilizia vernacolare. La perdita delle vite umane è stata devastante, non soltanto tra i cittadini qualunque, ma tra il personale haitiano e straniero di critica importanza ai soccorsi. Si spera che la comunità internazionale, nell'ottica di portare la riduzione dei rischi di disastro al centro permanente dell'attenzione, come si dice in inglese tramite mainstreaming, cercherà di facilitare la ricostruzione degli elementi chiave dell'infrastruttura e degli impianti critici in modo tale da resistere i prossimi disastri e quindi di rimanere in grado di giocare un ruolo fondamentale la prossima volta quando si tratta di lanciare i soccorsi. Per ora la situazione e caotica e inefficiente al punto di essere quasi impossibile.

Fino al 90% dei morti che avvengono nei terremoti accadono nei paesi e nelle regioni più povere del mondo. Il solo motivo perché queste aree non denunciano anche la maggior parte dei costi dei danni è dovuto alla povertà dei loro beni: quindi, le cifre di denaro non sono diagnostiche del grado di sofferenza.

La povertà e la vulnerabilità ai disastri non sono perfetti sinonimi. Per lo meno, l'ingegnosità umana ha permesso alcune comunità povere di migliorare le loro circostanze e creare una certa resilienza di fronte al rischio di disastro. Accade così, ad esempio nelle montagne del Nepal di fronte ad alluvioni e frane. Qualsiasi siano le limitazioni finanziarie, un senso di autodeterminazione tramite participazione di massa agisce sempre a favore della riduzione dei rischi di disastro. Organizzazioni della società civile, amministrazioni pubbliche e imprese commerciali devono lavorare insieme sotto i precetti della Hyogo Framework for Action, 2002-2015, il modello di sviluppo della resilienza promosso dall'ISDR, la Strategia Internazionale dell'ONU per la Riduzione dei Disastri. L'esempio, purtroppo negativo, dell'Afghanistan (un altro dei paesi più sismici del mondo) è indicativo. Una generale mancanza di sicurezza, stabilità e governance ha impedito la creazione di strutture di protezione civile e ha lasciato come l'unica alternativa una mera improvvisazione.

La comunità internazionale è sensibile alla questione dei grandi disastri naturali. Inoltre, con il cambiamento del clima, l'inalzamento del livello del mare, e l'intensificazione dei fenomeni meteorologici, diventa chiaro che nel futuro i disastri saranno più grandi e più devastati di prima se non si riesce a potenziare la resilienza. Comunque, malgrado un'abbondanza di discussione sulla scala mondiale del bisogno di cambiare dalla sola reazione ai disastri ad un atteggiamento che favorisca misure di prevenzione e limitazione dei futuri impatti, gli sviluppi tangibili sono pochi. Così, il terremoto in El Salvador del 2001 era in molti sensi una ripetizione di quello del 1986, comprese alcune delle misure di soccorso adoperate.

Restringendo la discussione alle forme più immediate dell'assistenza, la convergenza di fino a 2000 specialisti stranieri in ricerca e salvataggio da tutte le parti del mondo, sebbene sia necessaria e benvenuta, semplicemente non è un modo efficiente di salvare le vite delle persone ferite e intrappolate vive sotto le macerie. Pochi soccorritori arrivano dall'estero prima di 36 ore dopo un terremoti, mentre i tempi medii di sopravvivenza sotto le macerie sono generalmente ben al di sotto delle 24 ore, e spesso sotto 12 ore, secondo le particolari condizioni locali. Il costo per vita salvata di questo sistema è astronomicamente alto, soprattutto in paragone con quello che si potrebbe fare con risorse già in posto. Dato che si sappia benissimo dove nel mondo avverranno i maggiori disastri naturali del futuro, sarebbe ora di promuovere un grande sforzo internazionale per incoraggiare le preparazioni locali. Se non si può ancora iniziare con la prevenzione dei disastri a livello locale, almeno cerchiamo di aumentare la capacità di reagire per bene da basi ubicati sul posto. Questo significa trasferire tecnologia, attrezzi, esperienza e formazione a dove sarà necessaria. Significa, inoltre, assicurare che la prontezza sia permanentemente mantenuta, tramite la preparazione sostenibile, un processo che richiede tenacità, organizzazione, generosità e attenzione indivisa. Se la comunità internazionale non dimostra queste qualità, il prossimo grande disastro sarà un'altra occasione per raccontare la stessa fastidiosa storia, in cui prevedibili miserie sono descritte come se fossero inattese e incomprensibili.