martedì 29 aprile 2008

Vulnerabilità alle calamità naturali e mitigazione del rischio: le lezioni del passato e la via del futuro



Riassunto. Questo articolo descrive lo stato attuale degli impatti, della vulnerabilità, del rischio e della mitigazione delle calamità naturali. Si è di fronte ad una differenza fondamentale tra il livello di rischio, e le strategie impiegate per affrontarlo, nei paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo. In questi ultimi succedono il maggior numero di catastrofi e il peggior effetto sulla popolazione, soprattutto quando si tratta dei cosiddetti "disastri complessi" nei quali le emergenze umanitarie e militari coincidono. I paesi sviluppati denunciano invece i maggiori impatti economici, la crescita dei quali non è stata fermata malgrado il costante impiego di tecnologie di mitigazione sempre più sofisticate. Si descrivono poi le nuove tendenze nella gestione delle emergenze, compreso il crescente uso dell'informatica di rete; ci sono tuttavia ancora pochi segni del trasferimento della tecnologia dell'informazione nel Terzo Mondo. Per illustrare la fenomenologia di un singolo rischio, e per trarre alcune lezioni pertinenti alla mitigazione, si descrivono gli effetti epidemiologici dei terremoti più recenti. In seguito, per fare un confronto con l'approccio "all-hazards", si presenta l'esempio della vulnerabilità alle catastrofi naturali d'Italia. Infine, si esaminano le prospettive mondiali per la mitigazione delle calamità naturali e si offre un contesto teorico per le prospettive di ricerca nel futuro.

Introduzione

Nel 1990 l'Organizzazione delle Nazioni Unite inaugurò un Decennio Internazionale per la Riduzione delle Calamità Naturali, un iniziativa mondiale che aveva l'obbiettivo di dimezzare il tasso di mortalità e di distruzione causato dagli eventi geofisici estremi (USNRC 1994). Mentre il Decennio è nella sua seconda metà, è chiaro che lo scopo non verrà raggiunto, e che il progresso finora svolto ha fornito risultati piuttosto modesti. Da un lato, tuttavia, ci sono stati notevoli miglioramenti nel livello di conoscenza generale dei disastri e delle loro conseguenze. Più dati sono disponibili e sono stati analizzati meglio che in passato, con risultati migliori in termini di mitigazione e di protezione civile. Le strutture istituzionali sono stati potenziate, sia per quanto riguarda le organizzazioni super-nazionali, come il Dipartimento di Affari Umanitari (UN-DHA) dello stesso ONU, sia per le organizzazioni nazionali che si occupano di disastri. Nuovi centri di ricerca sono stati creati e nuove riviste accademiche fondate, e si è compiuto un notevole passo avanti nella disponibilità e nella qualità dell'addestramento nel campo della gestione delle emergenze.

La mortalità nelle calamità naturali è stata tenuta a livelli relativamente costanti, il quale è forse un risultato non indifferente, data la crescita della popolazione del mondo. Ma il costo dei disastri continua ad aumentare vertiginosamente. Ad esempio, nel 1989 il terremoto californiano di Loma Prieta costò tra US$6 e 12 miliardi. Nel 1992, Uragano Andrew causò $18 miliardi di perdite nella Florida e si temeva che il prossimo grande disastro potesse costare oltre i $40 miliardi (Berz 1994). Poi, nel gennaio del 1995, il terremoto giapponese di Kobe causò perdite del valore di US$131,5 miliardi (Japanese IDNDR Committee 1995), e ormai si temono delle perdite ancora più consistenti nei grandi disastri del futuro.

Per i primi anni '90 i dati hanno stimato il costo dei danni nelle calamità naturali come US$443.8 miliardi (IFRCRCS 1996). Circa un terzo di questa cifra deriva dalle grosse catastrofi, ognuna delle quali costa mediamente $350-500 milioni (Berz 1992). Benché le perdite economiche siano state particolarmente elevate nei paesi industrializzati, le alluvioni e la siccità, ad esempio, incidono solo mediamente lo 0,1% del loro PLN, mentre, in alcuni paesi in via di sviluppo particolarmente colpiti dalle catastrofi naturali, fino al 2% del PLN viene assorbito dalle perdite nei disastri (Alexander 1993a, p. 583). In alcuni paesi particolarmente poveri i grandi disastri sono talvolta venuti a costare il PLN di un anno intero, come nel caso del terremoto nicaraguense del 1972 (Kates et al. 1973).

Dai suoi primi esordi (Prince 1920, Sorokin 1942, White 1945, Barton 1969) lo studio dei disastri si è sviluppato in una vera e propria disciplina, sebbene organizzata intorno ad almeno sei diverse scuole di pensiero (Alexander 1993a, pp. 12-14). Benché vari tentativi sono stati compiuti per unificare le scienze sociali e fisiche sull'argomento dei disastri (Nemec et alii 1993), permane tuttavia una discordia fondamentale. Esiste una forte differenza di opinione sul fatto che l'organizzazione sociale oppure i sistemi tecnologici siano la chiave alla mitigazione dei disastri (Hewitt 1983). Di recente alcuni sociologi hanno sostenuto che le calamità naturali sono in effetti causate dalle inadeguatezze del sistema sociale, così relegando gli eventi geofisici ad un ruolo secondario (Kreps 1995). Questo è un modo per dire che gli eventi fisici sono sufficientemente prevedibili e ripetitivi da essere considerati rischi "normali" della vita quotidiana. La variabile più significativa diventa la vulnerabilità dei sistemi sociali umani e quindi le cause delle catastrofi vengono ricercate nell'inabilità di mitigare, o persino di percepire, i rischi. Tuttavia, questo approccio è stato vigorosamente contestato da tra gli altri, alcuni geografi, i quali preferiscono un modello più tradizionale di cause ed effetti che cerca di integrare l'impatto fisico con la risposta socio-economica (Hewitt 1995).

Ciò nondimeno, vari decenni di ricerca geofisica e socio-scientifica hanno fermamente stabilito la base intellettuale e scientifica dello studio dei disastri. Le aree del mondo a rischio delle calamità naturali sono state cartografate; in molti casi gli intervalli di ricorrenza dei disastri sono stati stabiliti, e gli impatti futuri sono ormai largamente prevedibili (Smith 1992). I dati sulle perdite indicano che ogni anno circa 200 disastri naturali uccidono 144.000 persone, feriscono 57.000, lasciano 4,9 milioni senza tetto e incidono direttamente sulle vite di altre 129 milioni di persone (IFRCRCS 1996). Le investigazioni sociali hanno delineato le fasi delle catastrofi e hanno chiarito le risposte organizzative, le percezioni personali, le reazioni delle persone, e le regolarità sociali nei disastri. Così, ogni nuovo evento evolve secondo un inquadramento altamente prevedibile, il quale replica parzialmente l'andamento dei disastri del passato.

La vulnerabilità e la mitigazione dei disastri nei paesi in via di sviluppo

Negli anni '90 i disastri tendono ad accentuare le già profonde differenze tra gli impatti nei paesi industrializzati e quelli nei paesi in via di sviluppo (Blaikie et alii 1994). Prima di tutto, circa l'80% degli impatti delle calamità naturali ed il 95% della mortalità avvengono nel Terzo Mondo (Cuny 1983). Inoltre, gli effetti sono distribuiti in modo molto disuguale, tale che un carico sproporzionale viene portato da alcuni paesi particolari, quali la Cina, l'India, il Bangladesh, l'Indonesia, le Filippine, l'Etiopia, il Peru.

In modo tale da illustrare la discrepanza nella risposta ai disastri tra paesi con diversi livelli di sviluppo, la situazione in Giappone verrà paragonata con quella nelle Filippine. In Giappone la sicurezza pubblica viene costantemente minacciata da terremoti, maremoti, frane, alluvioni, tifoni ed eruzioni vulcaniche. Il rischio di tali eventi estremi viene affrontato con un elevato grado di organizzazione della protezione civile, un alto livello di investimento nella tecnologia di monitoraggio e preallarme, e un forte sostegno alla ricerca geofisica. Anche se è tutt'altro che infallibile, la risposta giapponese ai disastri è da considerare rapida ed efficiente (UNDHA 1995, Japanese IDNDR Committee 1995).

Le condizioni di rischio naturale sono molto simili nelle Filippine, dove una media di 20 tifoni passano ogni anno (nel 1993 erano 32). Però, malgrado gli sforzi nell'organizzazione della protezione civile, nell'educazione del pubblico e nell'addestramento per affrontare le emergenze, il paese deve affrontare un rischio di calamità naturali pareggiabile con quello giapponese con risorse largamente inferiori a quelle nipponiche: il PLN è soltanto il 2,75% di quello giapponese e circa il 49% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Inoltre, la povertà dimostra forti legami con il degrado ambientale e ci sono chiari segni che questo problema aumenta gli effetti dei disastri: le alluvioni indotte dai tifoni e le frane causate dai terremoti hanno i loro effetti peggiori nelle aree (come le montagne di Baguio nel nord dell'isola di Luzon) dove il terreno agricolo è soggetto a forti dissesti idrogeologici (Broad e Cavanagh 1993). In sintesi, il costo dei disastri è maggiore in Giappone, ma la mortalità e ben 9 volte più alta nelle Filippine.

Nell'ambito delle singole nazioni è chiaro che gli effetti delle calamità naturali sono distribuiti in modo molto disuguale secondo forti differenze nella vulnerabilità dei diversi gruppi sociali. In molte città del Terzo Mondo i poveri e chi non possiede il terreno sono costretti ad occupare i siti più pericolosi: versanti tropicali instabili, fondi di valli altamente alluvionabili, pianure litorali minacciate da onde di tempesta, e così via (Havelick 1986). La mortalità nei disastri viene quindi concentrata nei barrios, nelle favilas, nei bidonvilles e negli slums che sono frutto di una crescita urbana rapida e senza pianificazione, scene di povertà non alleviata. Comunque, la marginalizzazione, la negazione al popolo di una voce politica e di una sicurezza economica, è un fenomeno più generale nel senso che essa affligge anche le aree rurali (Blaikie 1985, p. 125). È un fenomeno in aumento a livello mondiale e la sfida che pone agli enti di aiuto internazionale ha stimolato la formulazione di nuove idee su come integrare il soccorso dei disastri con lo sviluppo economico (Anderson e Woodrow 1989). Infatti, lo sviluppo socio-economico è da molto tempo conosciuto come chiave alla mitigazione delle catastrofi, ma solo recentemente si assiste ad un cambiamento significativo dal fornire aiuti dopo l'impatto dei disastri ad una forma di aiuti che cerca di prevenire i disastri o ridurre i suoi effetti tramite la promozione dello sviluppo economico e della sicurezza comunitaria. C'è stato quindi un riconoscimento tardivo che, invece di essere un'interruzione al processo di sviluppo, i disastri sono una parte integra e prevedibile della vita quotidiana delle aree che essi colpiscono (Maxwell e Buchanan-Smith 1994). Essi devono essere trattati come parte degli ostacoli normali allo sviluppo, non come fenomeni separati ed anomali.

Questo quadro è stato comunque complicato da ciò che si chiama le "emergenze complesse" (Duffield 1994). In Somalia ed Etiopia, ad esempio, le alluvioni e la siccità avvengono periodicamente nel contesto di altri problemi ugualmente pressanti: il conflitto militare, la guerra di bassa intensità condotta da comandi di guerriglia, il collasso dello stato, la politicizzazione dei soccorsi, la proliferazione di profughi internazionali e di quelli domestici, i cosiddetti internally displaced persons (IDPs), l'incerta erogazione dei viveri, gli attacchi sui soccorritori (Gallagher e Forbes Martin 1992). Così il soccorso dopo un disastro assume una forma più integra ma molto più complicata. Deve tenersi conto del fatto che la produzione e la distribuzione dei viveri più essenziali sono diventate una questione altamente politica in cui il controllo degli aiuti, comprese la sua limitazione o la sua distruzione, fanno spesso parte di una strategia militare usata per sopprimere l'opposizione. Quindi, nelle "emergenze complesse" moderne i civili non-combattenti diventano le principali vittime sia dei disastri naturali che della deliberata creazione di insicurezza sociale tramite la manipolazione degli aiuti umanitari.

La vulnerabilità e la mitigazione dei disastri nei paesi sviluppati

Secondo la tendenza attuale, le perdite economiche sono concentrate nei paesi industrializzati mentre l'impatto umano dei disastri è maggiore nelle nazioni in via di sviluppo. I primi hanno fatto un grande progresso nella progettazione di sistemi di monitoraggio e di preallarme, nell'adeguamento degli edifici a norme di sicurezza sempre più stringenti, e nell'allestimento di procedure di evacuazione, quindi nel miglioramento della sicurezza pubblica. Questo ha facilitato la progressiva riduzione della mortalità a livelli piuttosto bassi. Negli Stati Uniti, per esempio, l'uragano che colpì Galveston nel 1900 causò la morte di 6.000 texani, ma gli uragani degli anni '90, che vengono preceduti dall'evacuazione fino ad un milione e mezzo di residenti della fascia costiera, hanno finora procurato pochissime vittime (Rappoport e Fernandez-Partagas 1995). In modo simile, l'impiego della radar Doppler, delle reti di osservatori volontari, dei sistemi di preallarme, e dei rifugi predesignati hanno ridotto la mortalità nelle trombe d'aria del Midwest in un numero minore di cento per anno, mentre quarant'anni fa i singoli tornado spesso causavano cifre più alte di morti (Eidson et alii 1990). Però, nello stesso tempo lo sviluppo urbano e suburbano continua ad aumentare la quantità e il valore dei beni immobili presenti nelle zone di ripetuto impatto dei disastri, mentre la protezione strutturale non riesce a soddisfare il crescente bisogno di mitigazione del rischio.

Nel mondo industrializzato le iniziative per ridurre gli impatti dei disastri sono state piuttosto contrastate dalla creazione di nuove fonti di vulnerabilità e dall'amplificazione delle fonti già esistenti. Anche laddove le radici culturali della società forniscono una solida base storica per le reazioni ai disastri, c'è un processo continuo di trasformazione socio-economica che conduce, in particolare, alla creazione di una cultura consumistica universale basata sul capitalismo del mercato libero, nella quale i disastri assumono essenzialmente la forma di fasi di consumo accelerato delle risorse. Paradossalmente, malgrado l'attuale riduzione del ruolo dello Stato in tanti aspetti del welfare e dell'economia, c'è stato un aumento generale nel livello e nell'intensità dell'intervento statale nel campo della protezione civile e nel soccorso dopo i disastri. Ma solitamente le innovazioni nel modo in cui le catastrofi vengono affrontate seguono gli eventi stessi (la cosiddetta "finestra di opportunità", vedi Solecki e Michaels 1994). Nel periodo seguente l'impatto l'opinione pubblica è più sensibile al problema e richiede un'immediata azione governativa per migliorare la sicurezza. In questo senso i disastri degli anni '80 e '90 hanno spinto molti paesi sviluppati a progettare misure di protezione civile, a creare la necessaria struttura burocratica ed istituzionale, ad istituire misure di mitigazione del rischio e ad allestire programmi di addestramento per i lavoratori di emergenza.

Diverse tendenze sono emerse nel modo in cui le emergenze vengono affrontate. Per primo, la tradizionale struttura "monolitica" della catena di comando è diventata impopolare e viene spesso sostituita dal "sistema di comando dell'incidente" (incident command system - ICS), in cui le unità operative lavorano autonomamente in parallelo, anziché in una gerarchia subordinata (Irwin 1991). La chiave al successo dell'ICS è la comunicazione tra le agenzie che lavorano sul disastro. Se il flusso di informazione è sufficiente, le iniziative non dovrebbero essere né duplicate né trascurate, tutti i compiti importanti saranno eseguiti e le unità operative dovrebbero rispondere mutualmente ai loro bisogni collettivi. Quindi la seconda tendenza è quella del miglioramento della comunicazione in tempo reale durante i disastri. In questo contesto l'Internet giocherà un ruolo sempre più fondamentale, e si è già dimostrata sufficientemente flessibile e rapida nella gestione delle emergenze (ad esempio, i paesi del gruppo G‑7 hanno organizzato un'iniziativa per promuovere una Global Information Society che contiene una proposta per l'utilizzazione dell'Internet per allestire un sistema mondiale per la gestione delle emergenze -- vedi http://info.ic.gc.ca/G7/). L'Internet permette non soltanto la quasi istantanea trasmissione di testi, dati ed immagini, ma anche a singoli individui di seguire l'emergenza dovunque siano nel mondo; un fatto che apre le porte alla partecipazione di esperti di ogni tipo provenienti da qualsiasi parte del mondo. La Federal Emergency Management Agency statunitense ha conquistato il primato nell'uso dell'Internet per diffondere notizie sui disastri e informazione su come mitigarli. Il suo sito della World Wide web (http://www.fema.gov/) viene usato da milioni di utenti e fornisce un modello per iniziative simili altrove.

Una terza tendenza è quella dell'automatizzazione del processo di microzonizzazione del rischio. I sistemi di informazione geografica (GIS) vengono ormai largamente usati per l'analisi e per l'esposizione di dati sulla vulnerabilità territoriale e sugli impatti delle calamità (Carrara e Guzzetti 1995). Tramite l'integrazione di informazione sui rischi con dati socio-economici, essi permettono l'elaborazione di scenari di pericolosità e la pianificazione delle risposte a futuri disastri. L'impiego dei GIS è stato fondamentale per favorire uno spostamento nella pianificazione locale e regionale dallo studio di singoli rischi ad un approccio più generale del tipo "all-hazards" in cui si studia la pericolosità generale della zona in termini della totalità dei rischi che hanno un'importanza locale. Questo processo veniva considerato troppo costoso per uso generale quando si doveva fare manualmente, ma l'arrivo della tecnologia d'informazione e la disponibilità di programmi di GIS flessibili e poco costosi ha reso possibile la microzonizzazione all-hazards al livello di singoli comuni. Negli Stati Uniti la Federal Emergency Management Agency ha sponsorizzato lo sviluppo di un GIS nazionale, intitolato HAZUS (la sigla di "Hazards in the United States"), il quale verrà usato dagli Stati, dalle Contee e dai singoli Comuni, soprattutto quelli metropolitani, per determinare i rischi naturali e tecnologici, per pianificare le risposte di emergenza e per mitigare gli impatti dei disastri (RMS 1993).

Per di più, c'è una crescente tendenza ad ottenere che la mitigazione del rischio sia una condizione dell'eventuale aiuto finanziario statale dopo il disastro. Nella maggior parte delle aree a rischio di calamità naturale gli intervalli di ricorrenza sono approssimante conosciuti, come sono anche le probabili conseguenze degli impatti dei disastri. La microzonizzazione e l'analisi della vulnerabilità possono fornire ulteriori dettagli (Foster 1980). Ci sono quindi pochi motivi per dire che l'entità dei danni futuri è imprevedibile. Inoltre, i rapporti costo: beneficio dell'investimento nelle tecniche di mitigazione sono quasi sempre positivi in termini del valore dei danni evitati (Petak e Atkisson 1982). Nello stesso tempo, il bisogno di ridurre il budget fiscale induce molti governi a cercare un modo per limitare le spese di soccorso. Si cerca un nuovo ruolo per l'assicurazione, in cui la mitigazione del rischio è la chiave sia alla riduzione del rischio, che all'abbassamento del costo dei premi (Kunreuther e Miller 1985).

Mentre l'impatto globale delle alluvioni, della siccità e delle tempeste tropicali è più catastrofico, sia in termini umani che in quelli economici, i terremoti forse rappresentano meglio il tipico disastro di impatto immediato. Annualmente il danno dovuto ai sismi ammonta a US$50.9 miliardi e viene distribuito largamente nel mondo (IFRCRCS 1996). In modo tale da offrire un esempio dettagliato della fenomenologia dei disastri moderni, la seguente sezione esaminerà alcune delle caratteristiche epidemiologiche dei disastri sismici avvenuti a metà degli anni '90.

I disastri sismici recenti, 1993-96

Nel periodo settembre 1993 - settembre 1996 ben 54 terremoti hanno causato infortuni: 43 (circa 14 all'anno) hanno causato morti mentre 47 (circa 16 all'anno) hanno provocato feriti. Durante questo periodo 19.969 persone hanno perso la vita e 89.419 hanno subito ferite nei disastri sismici. La mortalità media annuale di 6.656 è relativamente bassa in paragone con la media degli ultimi 25 anni, la quale è 21.593 (IFRCRCS 1996). Questo fatto riflette l'assenza nel periodo di studio di grossi eventi come il terremoto cinese di Tangshan (1976), il quale uccise 240.000 persone. Comunque, la media annuale di ferite per il periodo 1993-96, 29.806 persone, è molto vicino a quella degli ultimi 25 anni.

Mentre i terremoti di magnitudo 6,5-7,5 costituivano soltanto il 43% degli eventi che hanno provocato infortuni (i quali erano a loro turno circa il 60% di tutti i terremoti che hanno causato danni nel periodo in questione), si aveva l'84% dei morti e il 96% dei feriti in questi eventi. Si può quindi assumere che gli eventi di magnitudo più bassa hanno causato meno infortuni, mentre quelli di magnitudo più alta erano infrequenti ed isolati tale da non causare grande mortalità nel periodo studiato. Circa il 93% dei morti e il 77% delle ferite sono stati causati da terremoti che accadevano tra mezzanotte e le 6,00 di mattina (malgrado il fatto che questi costituivano soltanto il 33% dei terremoti che provocavano infortuni). Questo fatto indica che il rischio di mortalità o morbilità nei terremoti è significativamente più alto di notte (Alexander 1996).

Gli eventi studiati confermano che il crollo degli edifici è la fonte principale degli infortuni nei terremoti (Page et alii 1975). Ma è anche chiaro che nella maggior parte dei sismi le vittime sono concentrate in relativamente pochi edifici che crollano: palazzi di appartamenti in Russia e Turchia, alberghi in Messico e Grecia, scuole in Cina ed Egitto. Nei terremoti studiati i tipi di ferita traumatica hanno seguito il normale inquadramento per i terremoti: arti rotti, trauma al cranio, ferite alla schiena e al torace, lacerazioni, ferite di schiacciamento, ustioni. Comunque, la proporzione di persone seriamente ferite a quelle con ferite lievi variava notevolmente dal 2 al 84%. Il rapporto medio tra mortalità e morbilità dimostrava più regolarità, essendo 1:3,44, un valore vicino al rapporto di 1:3 previsto da altri indagini (PAHO 1981, Alexander 1985).

In alcuni casi, le vittime sono state estratte vive dalle macerie fino a 6 giorni dopo il terremoto; però, come è prevedibile, la stragrande maggioranza dei sopravvissuti sono stati salvati entro 24 ore del disastro (cfr. Noji et alii 1993). Mentre era difficile determinare un rapporto tra il numero di edifici crollati e il numero di morti, alcuni dati parziali suggeriscono che ci potrebbe essere una media di 10-16 morti per ogni 100 edifici che crollano completamente nel sisma.

Il panico che accompagna l'evento disastroso è un fenomeno complesso e sulla cui definizione e casistica è acceso il dibattito (vedi Alexander 1995); esso veniva rilevato e identificato in 14 dei circa 86 terremoti dannosi che accadevano nel periodo studiato, mentre la fuga veniva descritta in 25 eventi.

Nei tre anni in considerazione i terremoti colpirono ripetutamente gli stessi posti. Così, 10 sismi colpirono l'Indonesia (soprattutto nella Provincia di Irian Jaya) 7 la Cina (soprattutto nella Provincia di Yunnan). Sulla globalità ben due terzi dei disastri sismici hanno avuto luogo in Asia, e tuttavia anche se questa cifra è alta in termini della media a lungo termine (che è il 36%), vale la pena ricordare che ben metà di tutta la mortalità registrata nei terremoti è accaduta in Cina (Coburn e Spence 1992).

Questo quadro riassuntivo della fenomenologia dei terremoti recenti ci offre tre possibili lezioni. La prima ci porta a dire che gli sforzi globali di mitigazione sismica devono essere concentrati laddove i terremoti colpiscono ripetutamente e con maggior devastazione. La seconda, che nel periodo immediatamente dopo un terremoto le risorse di salvataggio devono essere concentrate in relativamente pochi posti e devono essere rese disponibili con grande tempestività affinché si possa salvare la vita delle persone rimaste sotto le macerie. La terza, che la cifra degli infortuni nei terremoti dipende molto dal momento della giornata in cui accade il sisma (ad esempio, secondo l'orario in cui esso avviene, il prossimo grande terremoto nell'area della baia di San Francisco Bay potrebbe causare danni valutabili tra $115 e $135 miliardi, potrebbe uccidere tra 2.000 e 6.000 persone e potrebbe ferire seriamente 8.000-18.000 vittime; Shah 1995). Apparentemente, i disastri sismici che avvengono di notte danno meno opportunità di reagire e quindi essi causano una mortalità più alta, sebbene i terremoti che colpiscono le aree metropolitane nei periodi di intenso pendolarismo possono essere anch'essi particolarmente letali.

Benché un particolare intuito può essere tratto dall'analisi di un singolo tipo di rischio, un approccio alternativo è quello di studiare tutti i rischi di calamità naturale che affligono una particolare regione. Questo fornisce un idea della "pericolosità del luogo" (Burton e Hewitt 1971), il rischio complessivo sostenuto dagli abitanti della zona e la magnitudine del problema di mitigazione affrontato dalle autorità civili. Pertanto, la sezione che segue considererà la natura del rischio globale nell'Italia contemporanea e valuterà la qualità della risposta istituzionale per quanto riguarda la sua evoluzione negli anni recenti.

Il rischio di calamità naturale in Italia

Con un carico sempre minacciante di terremoti, alluvioni, frane, eruzioni vulcaniche, trombe d'aria, maremoti e incendi boschivi, l'Italia denuncia il rischio di calamità naturale più elevato di tutti i paesi europei. Un terremoto dannoso avviene in media ogni 2-4,3 anni (Ganse e Nelson 1981) e nel ventesimo secolo almeno 128.000 italiani sono morti nei disastri sismici (Coburn e Spence 1992). Mentre il miglioramento delle tecniche di costruzione edile, soprattutto per quanto riguarda l'impiego del cemento armato, significherà probabilmente che non ci sarà nel futuro una mortalità paragonabile alle 29,500 persone che morirono in Calabria nei terremoti del 1783-5 o alle 90.000 che perirono a Messina nel 1908, i rischi sismici rimangono alti. Circa il 70% della popolazione italiana risiede in comuni classificati come sismici, mentre il 32% vive nei circa 2000 comuni designati ad alto rischio sismico (Solbiati e Marcellini 1983). Inoltre, alcuni degli edifici più deboli e meno protetti da misure antisismiche sono ubicati nelle aree più sismicamente attive, quale l'Irpinia, gli Abruzzi, l'Aspromonte e la Sicilia occidentale. Inoltre, lunghe fasce della costa italiana sono sottoposte ad un rischio significativo, sebbene maggiormente sconosciuto, di maremoto (Tinti 1991).

Le alluvioni e le frane insieme provocano una media di 36 morti all'anno, un numero che aumentava a 64 nelle alluvioni piemontesi del novembre 1994, le quali provocavano danni per circa Lit. 15.000 miliardi. I terreni geologicamente giovani, tettonicamente disturbati, argillosi e flyschoidi degli Appennini producono circa 3.000 frane dannose all'anno (una per ogni 54 km2), e queste sono largamente distribuite nei 57% dei comuni che presentano il dissesto idrogeologico (Alexander 1987). Comunque, niente può essere paragonato con la Grande Frana di Ancona del dicembre 1982, la quale consisteva nel movimento spontaneo di ben 3,42 kmq di terreno e lasciava 3.661 persone senza tetto (Crescenti 1986). La più grande frana urbana dell'Europa risultava dall'estensione della città di Ancona sopra un versante che aveva mostrato periodici segni di instabilità fin dal 1770. L'esempio di Ancona, come diversi casi analoghi nel mondo, dimostra che ci sono complessi meccanismi sociali che inesorabilmente spingono avanti il processo di sviluppo urbano malgrado che i rischi siano ben conosciuti. Questi processi creano un circolo vizioso di aumenti nella vulnerabilità del luogo.

Nella Regione Campania almeno 3 milioni di persone convivono con il rischio di eruzione vulcanica (Scandone et alii 1993). Circa 552.000 di questi vivono nei 17 comuni dell'area circum-vesuviana. Il Vesuvio ha prodotto storicamente almeno 40 fasi di attività, compreso un periodo di eruzioni periodiche dal 1631 al 1904 (Arnò et alii 1987). Circa 4.000 persone sono state uccise dall'eruzione del 16 dicembre 1631 in una zona che ora ha 230.000 abitanti e una densità di popolazione tra le più elevate d'Europa (fino a 18.000 persone al kmq). Mentre a Monte Etna la natura relativamente pacifica delle eruzioni pone problemi maggiormente di contenimento delle colate laviche e della limitazione del danno (un problema molto costoso ma essenzialmente risolvibile), per il Vesuvio il problema è da una parte il contenimento dell'espansione urbana, la quale minaccia di colonizzare le colate laviche più recenti, e dall'altra come evacuare gran numero di abitanti di fronte ad un'attività vulcanica potenzialmente esplosiva, con colonne pliniane, massicce cadute di ceneri, colate di lava e di fango (Scandone et alii 1993).

La politica e la prassi della protezione civile sono evolute molto lentamente in Italia e, come altrove nel mondo, entrambe hanno risposto più allo stimolo degli eventi estremi che ai bisogni obbiettivamente definiti. Inizialmente si pose poca attenzione al problema. Così, l'anno dopo l'alluvione di Firenze del novembre 1966, la cosiddetta "legge ponte" dette luogo ad un rilassamento del sistema di licenze edilizie tale da permettere un consistente aumento delle costruzioni, e quindi degli edifici a rischio di alluvione, di ben 70% in alcune parti della media valle dell'Arno. Il bisogno di un coordinamento governativo sostenuto in seguito ai terremoti di Friuli del 1976 e dell'Irpinia del 1980 ha dato luogo alla fondazione del Ministero e del Dipartimento della Protezione Civile nel 1982, ma le fortune di queste istituzioni sono state decisamente alterne, dato che le organizzazioni governative che ci sono via via succedute hanno continuamente cambiato i parametri politici sotto i quali esse operano. Ciò nondimeno, il coordinamento nazionale della risposta ai disastri è ormai ben stabilito in modo permanente sotto la guida di un Sottosegretario competente ed esperto, mentre una legge del 1992 obbliga le Regioni e le Province a mitigare i futuri disastri ed istituire strutture di protezione civile. Ma a questo proposito il progresso è stato inaccettabilmente lento. Pochi comuni hanno centri di comando della protezione civile, pochi corsi di addestramento, non c'è ancora un collegio nazionale di protezione civile, e lo studio dei disastri non appare, in se, in nessun ordinamento universitario italiano. In questo aspetto l'Italia è molto arretrata rispetto a diversi altri paesi industriali ed alcuni in via di sviluppo, un discreto numero dei quali già offrono lauree e corsi di specializzazione nello studio dei disastri e nella gestione delle emergenze.

Malgrado la lentezza del cambiamento istituzionale, e l'alto grado di inerzia burocratica, l'Italia è ricca di risorse umane e questi sono relativamente ben organizzate. Le associazioni di volontari svolgono un ruolo fondamentale durante le emergenze e sono particolarmente ben sviluppate nelle aree del nord e del centro che hanno sofferto grandi disastri, come il Friuli e la Toscana. I comuni, come Firenze, che hanno compiuto un sostanzioso progresso nell'allestimento di una struttura di protezione civile, hanno ben integrato le unità di volontari nell'organico operativo.

Avendo considerato il problema globale della vulnerabilità nei paesi sviluppati e in via di sviluppo, ed inoltre avendo esaminato la vulnerabilità nel contesto di un singolo rischio, i terremoti, e di una singola nazione, l'Italia, è ora il momento di fare una sintesi e considerare il futuro della mitigazione dei disastri alla soglia del ventunesimo secolo.

La via del futuro

Dal mondo pubblico, politico e scientifico l'interesse verso disastri naturali non è mai stato più vivo che al presente. Per la volontà di abbassare i rischi, o per la semplice necessità di fornire soccorsi, i governi e le organizzazioni non-governative sono diventati sempre più coinvolti nella lotta per prevenire gli infortuni e per ridurre le perdite nelle calamità naturali. Però, questi sforzi sono diventati fortemente polarizzati. Il mondo industrializzato ha investito sostanzialmente nelle soluzioni tecnologiche al problema dei rischi naturali, impiegando nuovi sistemi di monitoraggio e di preallarme e progettando costosi sistemi di difesa strutturale. Al contrario, il mondo in via di sviluppo è costretto a dipendere più dalla gestione delle risorse umane, spesso nell'ottica di una situazione complessa di instabilità politica, sociale, militare ed ambientale (Varley 1993). Finora, ci sono stati pochi segni di un grande processo di trasferimento della tecnologia, né di una particolare volontà da parte del mondo sviluppato di condividere con i paesi in via di sviluppo i suoi sofisticati sistemi di monitoraggio e preallarme (Hays e Pouhban 1991).

Ci si chiede se il mondo è capace di mantenere il suo attuale livello di interesse nei disastri e, soprattutto, se è capace di tradurre questo interesse in un miglior grado di mitigazione. Nei paesi industrializzati l'irrefrenabile aumento del valore e della vulnerabilità dei beni immobili produrrà delle perdite future che probabilmente stimoleranno ulteriori sforzi nel campo della mitigazione (Berz 1994). Ad esempio, lo scenario di una ripetizione del terremoto del 1923 a Tokyo (Shah 1995) prevede una perdita economica di US$2.000.000-2.700.000 miliardi, che equivale a 50% del PLN giaponnese (in più ci sarebbero 40.000-60.000 morti). Se questo avviene, l'intera economia mondiale sentirà l'impatto (i dati sono stati, comunque, fortemente contestati; vedi Wiggins 1996). Stranamente, malgrado che la mitigazione è quasi sempre meno costosd della prevenzione del danno, le analisi di costo:beneficio sono rarissime nel campo dei disastri, ed è quindi spesso molto difficile convincere i governi di investire danaro pubblico in misure di prevenzione di cui i benefici non sono immediatamente evidenti.

Per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo, le 21 principali nazioni donatrici hanno aumentato le loro quote di aiuto umanitario quasi sei volte dal 1985 al 1994 (ad un totale annuale di US$3,47 miliardi). Nel solo 1995, la Croce Rossa mondiale ha lanciato 55 appelli di soccorso (9 dei quali esclusivamente per soccorrere i disastri naturali) che hanno prodotto la donazione di un totale di $270 milioni. Il soccorso dei disastri è anche quindi un grosso affare economico. Comunque, il boom negli aiuti che ha seguito la fine della guerra fredda sembra di essere finito, malgrado la continua dimostrazione di alti livelli di bisogno da parte dei paesi riceventi l'aiuto. Data la crescente sensibilizzazione ad un'utilizzazione dei fondi in modo più efficiente, si sta dedicando particolare attenzione alla questione di come integrare il soccorso con la mitigazione e lo sviluppo economico delle regioni colpite dai disastri (Varley 1993). In questo, c'è un bisogno, non soltanto di potenziare il trasferimento della tecnologia, della conoscenza e dei programmi di addestramento, ma anche di imparare dagli eventi del Terzo Mondo. Il valore di questo è stato ampiamente dimostrato, ad esempio, dall'interesse da parte dei vulcanologi italiani nell'eruzione del settembre 1994 della caldera di Rabaul in Papua New Guinea. Questo evento offriva uno scenario molto simile ai possibili meccanismi di eruzione dei Campi Flegrei a Pozzuoli (IAVCEI 1957, Smithsonian Institution 1994). I casi come questo dimostrano che la chiave alla riduzione della vulnerabilità ai disastri risiede nel condividere la tecnologia e la saggezza, ma anche nella migliore gestione delle emergenze come fenomeni sociali che richiedono un'organizzazione innovativa.

In sintesi, i disastri naturali possono essere caratterizzati come una serie di concetti che si innestano, o come fenomeni opposti, o con un grado di complementarità. Possiamo concepirli come una specie di "DNA del disastro" da essere decodificato e spiegato dalla ricerca futura. In questo schema, il tempo è la spina dorsale delle catastrofi, intorno al quale gli eventi si svolgono, mentre lo spazio geografico è il medium di espressione di tali eventi (Alexander 1993b). Ogni nuova catastrofe crea una miscela di elementi unici e irripetibili e di regolarità prevedibili, e quindi essa viene caratterizzata sia dalla casualità che dall'inevitabilità, e viene rappresentata anche da una miscela di pericolo generalizzato e di rischio specifico. La tecnologia viene applicata alla mitigazione (sebbene la sua proliferazione rappresenta anche una fonte di vulnerabilità in sé), ma viene moderata da un filtro culturale, tramite il quale essa viene interpretata, percepita e quindi utilizzata. Come risultato, esiste una tensione costante tra l'amplificazione e la mitigazione del rischio, e il bilancio tra questi fattori determina la vulnerabilità complessiva e l'entità delle perdite future. La risoluzione di questi fattori per particolari rischi e per singoli luoghi pone una notevole sfida agli studiosi dei disastri, ma offre anche la chiave ad una conoscenza più profonda del fenomeno delle calamità naturali.

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Attacchi terroristici sugli Stati Uniti, 11 settembre 2001: impatto sulla protezione civile



Gli attacchi terroristici avvenuti la mattina di Martedì 11 settembre 2001 sono senza precedenza per quanto riguarda la scala di operazione, l'audacia e il grado di coordinamento. Sembra che ben 6 attentati siano stati pianificati, di cui 3 hanno colpito in pieno i bersagli causando la perdita di 3000 vite. Al momento di scrivere, non è chiaro se questi oltraggi rimarranno unici nella storia moderna oppure se essi inaugureranno una nuova fase di instabilità mondiale. In qualsiasi caso, gli attacchi a New York e Washington D.C. stanno avendo un profondo impatto sulla protezione civile. Questo articolo esaminerà alcuni aspetti degli attentati con riferimento all'organizzazione dei servizi di soccorso e alla pianificazione degli interventi di emergenza. Sebbene grazie ai mass media gli avvenimenti di quel giorno tremendo siano ben conosciuti a tutti, occorre, per primo, ricapitolare la sequenza degli eventi per capire meglio quali elementi siano importanti alla futura pianificazione della protezione civile.

Gli attentati

Alle 08,45 dell'11 settembre 2001, durante un normale volo commerciale, un Boeing 767 viene dirottato e pilotato contro i piani superiori della torre settentrionale del World Trade Center (WTC), nel distretto finanziario di New York nella penisola di Manhattan. Diciotto minuti più tardi un altro 767 dirottato si abbatte contro la adiacente torre meridionale. Entrambe le torri erano alte 110 piani. Alle 10 e 10 minuti un Boeing 757 piomba nel quartiere generale delle forze armate statunitensi, il Pentagono, e nello stesso momento un altro 757 si precipita nella Pennsylvania rurale, apparentemente mancando il bersaglio che i dirottatori volevano colpire a Washington o nello stato di Maryland. Almeno tre altri aerei con a bordo terroristi armati di coltelli venivano nel frattempo fermati a terra durante il groundstop, il successivo fermo generale dell'aviazione, sebbene la notizia della loro esistenza veniva resa pubblica soltanto dopo diversi giorni.

La capacità dei serbatoi di carburante dei 767 della Boeing è di 90.770 litri, mentre quella dei 757 è di 42.680 litri. Tutti i 4 aerei erano decollati con i serbatoi pieni pochi minuti prima di essere dirottati. Le 266 persone a bordo, compreso i 19 dirottatori, muoiono negli scontri e non ci sono superstiti. In tutti i tre edifici colpiti, il carburante dei velivoli alimenta deflagrazioni. Palle di fuoco vengono iniettate in entrambe le torre del WTC: quella settentrionale prende fuoco tra il 951 e il 1031 piano; quella meridionale tra il 821 e il 931. L'incendio al Pentagono, il palazzo di uffici più grande del mondo, prosegue per molte ore ma viene contenuto dalla struttura massiccia dell'edificio, progettato per resistere ad un attacco bellico.

Il WTC fu costruito negli anni '60 con una struttura portante composta di travi di acciaio rivestite di cemento. Le torri disponevano di una forte colonna centrale in cui si trovavano gli ascensori (198 in tutto), le scale e i condotti di distribuzione dei servizi. Le travi portanti radiava da questo tronco centrale collegandosi verso l'esterno con il resto dell'intelaiatura strutturale.

Gli impatti e le fiamme distruggono i sistemi antincendio, mentre la temperatura nei piani superiori dei due edifici saliva rapidamente a circa 800-1100 gradi. Nel giro di un'ora il cemento diventava polvere o fuliggine. Prima le travi deformavano per l'intenso caldo e poi si scioglievano. Sessantadue minuti dopo l'impatto la torre meridionale crolla. Quella settentrionale la segue alle ore 1028, 103 minuti dopo aver subito l'impatto del primo aereo.

Secondo i progettisti, le torri furono costruite in modo tale da resistere l'impatto di un Boeing 707, il normale aereo di linea negli anni '60, e di bloccare lo sviluppo di un incendio per circa 2 ore, il tempo 'di progetto' per l'evacuazione totale delle 2 torri più alte (il World Trade Center consisteva in 7 edifici). Sarebbe stato, comunque, estremamente difficile progettare questi edifici per resistere l'impatto, lo scoppio e le palle di fuoco di attacchi premeditati e accuratamente pianificati come quelli dell'11 settembre.

La cifra complessiva dei morti viene stimata in 44 unità nella Pennsylvania, 189 nel Pentagono e 2765 nel WTC, compresa nel secondo caso centinaia di stranieri provenienti da circa 60 paesi. Alcune decine fra le vittime sono italiani. Dato che nei momenti di massima affluenza, il WTC ospitava 40,000 lavoratori e 80.000 visitatori, la mortalità a New York viene notevolmente ridotta dalle evacuazioni che hanno avuto, tutto sommato, buon esito. Però, alcune decine di persone intrappolate sui piani superiori senza possibilità di salvataggio muoiono gettandosi dalle finestre per evitare una fine più lenta tra le fiamme.

Di particolare rilievo per la protezione civile è la morte di 343 pompieri e 78 poliziotti, i quali accorrevano al WTC appena dopo esser stati avvertiti degli scontri e, in molti casi salivano le scale di emergenza delle torri con l'intenzione di salvare le persone intrappolate o di combattere le fiamme.

I crolli avrebbero potuto essere molto più devastanti se gli impatti degli aerei fossero avvenuti , e i conseguenti incendi sviluppati, in punti più bassi delle torri. Così, queste ultime avrebbero potuto cadere sugli edifici adiacenti girandosi come alberi abbattuti, mentre in realtà sono crollati verticalmente su un'area piuttosto ristretta. All'inizio del crollo, lo spostamento del carico dei piani superiori su quelli inferiori è di circa 100.000 tonnellate, e il risultante cumulo di macerie, che contiene anche i resti di ben 3 altri edifici (compresa il WTC-7, un grattacielo di 47 piani), pesa circa 1.200 milioni di tonnellate. I crolli generarono onde sismiche paragonabili a terremoti di una massima magnitudo di 3,2.

Analisi

Mentre quasi tutti i singoli elementi degli attacchi sono paragonabili ad aspetti di alcuni eventi precedenti (ad esempio, lo scontro di un aereo caccia contro l'Empire State Building), la somma degli effetti, e quindi la gravità dell'impatto totale, non ha paragone nella storia del terrorismo. La magnitudo dell'attacco, il grado di coordinamento e la totale mancanza di preavviso ricadono fuori di ogni altra esperienza. Quindi, la pianificazione prima dell'evento non avrebbe potuto trarre sufficiente ispirazione da altri eventi per descrivere lo scenario di riferimento. Malgrado questo, molte lezioni possono essere tratte da ciò che è successo. Ecco una breve riflessione su alcune principali questioni.

I problemi a New York

Procedure di evacuazione. Per anni, l'evacuazione degli edifici alti è stata oggetto di controversia. I grattacieli rappresentano forti concentrazioni di vulnerabilità per quanto riguarda il rischio di incendio o di cedimento strutturale. Alcune fotografie scattate durante l'evacuazione di una delle torri del WTC mostrano scale strette (di larghezza meno di un metro) e affollate, con gente che cerca di scendere, strizzandosi contro i muri per far passare i pompieri che salgono, carichi di bombole di ossigeno e di altri attrezzi.

Avendo ricevuto istruzioni conflittuali dai colleghi, non tutti gli occupanti delle torri si dirigevano subito alle uscite, soprattutto sono rimasti fermi quelli che vedevano la pioggia di detriti da sopra e che si sentivano più sicuri dentro che fuori. Alla fine, molti di quelli che raggiungevano le scale trovavano il buio, il fumo e la presenza di grandi quantità di acqua provenienti dalla rottura dei sistemi di spegnimento degli incendi.

Sebbene una quantità elevata di persone siano riuscite ad evacuare dalle torri (forse il 90%), molte persone hanno impiegato più di un'ora di arrivare al pianterreno dal 701 piano e oltre. Una volta arrivate, il fumo, la polvere e la pioggia di detriti che cadeva continuamente nella piazza del WTC rendeva molto pericoloso il tentativo di uscire. Più positivamente, come avrebbero previsto i sociologi che si occupano dei disastri, il panico sembra esser stato molto limitato: la stragrande maggioranza delle persone si sono comportate in modo calmo e razionale, anche in situazioni apocalittiche.

Scenari di pianificazione per gli edifici alti. Nei giorni successivi, alcuni esperti di ingegneria strutturale comunicano ai mass media la gravità degli incendi (cioè, pochi minuti dopo l'impatto) rendendosi conto che le torri dovevano inevitabilmente crollare. Le implicazioni di tali dichiarazioni per la pianificazione degli interventi di emergenza sono profonde. Sebbene sottostimare il rischio di crollo è comprensibile sotto circostanze davvero eccezionali, a New York 248 pompieri e 95 soccorritori partirono da 5 distretti e da 34 compagnie dei Vigili del Fuoco newyorchese e poi morirono. Per di più, molti mezzi dei servizi di soccorso vengono schiacciati nel doppio crollo delle torri.

E' normale basare i piani di emergenza su eventi più probabili e meno catastrofici invece che su quelli quasi impensabili con conseguenze davvero apocalittiche. Eppure la pianificazione del disastro necessita il Apensare l'impensabile@: essa dovrebbe abituare il Disaster Manager ad adattare le sue decisioni ed azioni a condizioni veramente insolite. Tenendo conto che non c'è niente di più crudele e ingannevole del senno di poi, bisogna ripensare, piuttosto profondamente, la gestione dei grandi disastri che colpiscano gli edifici alti. Nell'ambito dei piani comunali di emergenza, bisogna formulare dettagliati scenari di risposta per tali situazioni.

Negli Stati Uniti ogni anno 16.000-20.000 edifici alti prendono fuoco, uccidendo tra 80 e 90 persone e ferendo 800-900. Ovviamente, il problema non è ristretto all'USA: ad esempio, negli anni '70 Saõ Paulo fu teatro di due famosi incendi nei grattacieli, dove decine di persone morirono intrappolate. Quindi non è un problema così insolito.

Gli aspetti più significativi della questione sono la sicurezza dei lavoratori di emergenza, il bisogno di accelerare le evacuazioni, e la necessità di proteggere gli evacuati mentre escono dall'edificio. La prima parte dell'allegata tabella offre una serie di previsioni dei tempi teorici di evacuazione del WTC calcolate utilizzando alcune equazioni non lineari sviluppate in una serie di prove di evacuazione eseguite su edifici alti nel centro di Toronto in Canada negli anni '70. La seconda parte riporta i tempi veri di evacuazione dopo l'attentato terroristico sul WTC nel 1993 quando una bomba provocò una serie di incendi e la diffusione generale del fumo in entrambe le torri. Come mostrano i dati, l'evacuazione totale di questi edifici richiedeva più di 2 ore, e forse più di 3.

Gestione dell'emergenza. Il centro di gestione dell'emergenza del Distretto di Manhattan doveva essere ubicato nella torre settentrionale del WTC, dove la Port Authority of New York-New Jersey aveva affittato una serie di uffici sui 21, 141 e 191 piani. La decisione di alloggiare il principale centro operativo nel WTC fu un atto di sfida al terrorismo in seguito alla bomba del '93, e fu anche una mossa strategica, dato il ruolo centrale del WTC nella zona di alta finanza di New York. Ovviamente, sotto le circostanze è diventato il posto meno adatto in assoluto. Da questo si può concludere che in ambienti urbani complessi quanto Manhattan sarebbe necessario allestire diversi centri operativi, ubicati in luoghi protetti e collegati in una rete. Ognuno di questi dovrebbe avere la capacità di diventare il centro principale se quello predestinato dovesse essere reso inutilizzabile.

Altri aspetti della gestione dell'emergenza a New York hanno avuto esiti più positivi. Dato che il fondo della penisola di Manhattan è circondata dalle acque su tre lati, fu abbastanza facile perimetrare l'area colpita e controllare l'accesso. I battelli evacuavano i feriti attraverso il fiume Hudson ad un posto medico avanzato a Jersey City, sulla riva del New Jersey. Malgrado la lentezza del trasporto litorale, era molto più facile e sicuro soccorrere le vittime così, ad una certa distanza dal fumo e dalla confusione di Manhattan. Di 5284 feriti, il 7,9% aveva bisogno di una degenza in ospedale. Il centro traumatologico di primo livello più vicino al sito della sciagura raggiunse la sua quota di pazienti (circa 200) entro 2 ore dall'inizio della catastrofe, e in seguito i feriti sono stati distribuiti tra 83 delle 170 ospedali delle 5 borough e 3 contee della zona metropolitana di New York.

Alle ore 17,00 dell'11 settembre il soccorso medico aveva raggiunto la sua massima potenza, ma la seconda ondata di feriti, ansiosamente attesa da medici e infermieri, non ci fu. Otto ore dopo l'inizio della catastrofe non c'era più bisogno di praticare il triage.

Ricerca e salvataggio. Al sito del disastro newyorchese un miliardo e 200 milioni di tonnellate di macerie erano accumulate in un groviglio molto compatto ma parecchio instabile. Fu estremamente difficile penetrare questo per cercare persone rimaste intrappolate, e per di più, gli incendi scoppiavano continuamente. I vuoti venivano riempiti di polvere, di fango o di fuoco e gli edifici intorno minacciavano di crollare da un momento all'altro (infatti il WTC-7, di 47 piani, crollò alle 17,20 dello stesso giorno della tragedia). Malgrado un'operazione di ricerca e salvataggio che coinvolgeva fino a 1200 soccorritori alla volta (il massimo numero che potevano lavorare nello spazio disponibile), pochissime persone furono trovate vive, e quelle soltanto all'inizio delle operazione di salvataggio.

L'enorme peso degli edifici crollati, e l'eccessiva frantumazione avvenuta durante i crolli, significavano che la proporzione di vuoti fu minore della figura del 15% riscontrata in altri crolli di grossi edifici, ad esempio nei terremoti. La vasta scala del cumulo e la massiccia instabilità del sito richiedevano l'impiego di mezzi pesanti dei tipi che solitamente non vengono usati in tali circostanze per paura di schiacciare vittime ancora in vita ma intrappolate sotto le macerie. Inoltre, la precarietà del sito necessitava di una serie di interruzioni al lavoro di salvataggio mentre gli operai lottavano disperatamente per consolidare i muri ancora in piedi. Comunque, con il passare del tempo, il lavoro diventava più regolare e, dividendo il sito in 4 zone di comando, ben 90.000 tonnellate di macerie furono rimosse durante la prima settimana.

Problemi a Washington, D.C.

Un commento editoriale pubblicato nell'autorevole quotidiano The Washington Post una settimana dopo la catastrofe disse che "un esame degli eventi di Martedì scorso indica che il Distretto [Washington DC] era impreparato per l'emergenza e quindi non fu in grado di reagire e prestare assistenza al pubblico in modo rapido e efficace." Questa affermazione è grave tale da richiedere chiarimenti e spiegazioni.

Le comunicazioni e le risposte di emergenza. Gli Stati Uniti dispongono di un sistema di trasmissione di messaggi di emergenza al pubblico tramite radio e televisione che viene periodicamente messo a prova. La mattina della catastrofe questo strumento non fu attivato nel Distretto di Columbia. Ciò nondimeno, la maggior parte dei cittadini ottennero informazioni su che cosa fare dagli stessi mass media che avrebbero trasmesso messaggi provenienti dal governo, ma le interpretazioni della situazione formulate e trasmesse dai giornalisti non corrispondevano necessariamente a quelle ufficiali. Infatti, in alcuni casi sembra che una politica ufficiale dell'emergenza non ci fosse. Ad esempio, il Capo del Gabinetto del Sindaco, incapace di comunicare per telefono a causa del sovraccarico delle linee e delle reti cellulari, usò la posta elettronica per ordinare l'evacuazione degli uffici federali. Ma dopo 4 minuti l'Amministratore della città mandò il contrordine, sempre per posta elettronica. Il primo messaggio fu inviato in risposta ad un'informazione, risultata sbagliata, che altri 3 aerei stavano per precipitare sulla capitale; il secondo fu frutto di una decisione di non sospendere il funzionamento del governo durante la crisi.

A parte l'ovvia conclusione che la posta elettronica non è un buon mezzo per diffondere un ordine di evacuazione, anche Internet fu rallentato dal sovraccarico e quindi perdeva la sua capacità di trasmettere messaggi in tempo reale. In qualsiasi caso, in realtà i lavoratori non essenziali tornavano a casa per conto loro, creando intoppi stradali in tutto il Distretto di Columbia e bloccando il movimento dei mezzi di soccorso. Un sistema di gestione del traffico (frutto delle pianificazioni 'Anno 2000', detta 'Y2K') fu attivato esolo dopo 3 ore è riuscito a snodare gli ingorghi.

Secondo le previsioni per una qualsiasi emergenza, alcuni telefoni satellitari avrebbero dovuto essere collocati nei principali ufficiali di governo a Washington. Purtroppo, questi strumenti sono rimasti chiusi in uno sgabuzzino fino al giorno successivo. Inoltre, il Distretto Sanitario Locale non disponeva di radio capaci di monitorare le comunicazioni tra ospedali e autoambulanze e quindi, dato il non funzionamento dei telefoni, non era in grado di partecipare alla formulazione delle decisioni logistiche e di stimare la disponibilità di servizi sanitari.

Piani di emergenza. Il Dipartimento di Polizia Metropolitana del Distretto di Columbia, il quale dispone di un organico di 3800 impiegati, non custodiva né un piano anti-terrorismo né una procedura per informare i poliziotti sulla strada e i loro comandanti come e dove rispondere alla crisi. I comandanti furono costretti ad improvvisare un piano minuto per minuto. La polizia non era a corrente della decisione presa dal governo federale di mandare i suoi impiegati a casa, e quindi fu colta dalla sorpresa di fronte all'afflusso del traffico sulle strade.

Nel frattempo, le camere del Parlamento non furono evacuate. Sarà stato meglio così, dato che Deputati e Senatori non erano addestrati nell'evacuazione e il piano non era aggiornato per quanto riguarda l'ubicazione delle uscite di emergenza dell'edifico. Nonostante si temesse un attacco proprio al Capitol.

D'altra parte, invece, la Metropolitana di Washington mise immediatamente in atto il suo piano di emergenza e continuò a funzionare bene per tutta la crisi. Purtroppo, molti pendolari assunsero che non fosse operativa e cercarono di tornare a casa sulle strade; quindi i treni circolavano mezzo vuoti.

La Contea di Arlington, periferica alla città, lanciò il suo piano di emergenza 10 minuti dopo l'inizio della crisi. Meno male, comunque, che non c'erano molti feriti, perché l'Amministratore della città di Washington dichiarò che il Washington Hospital Center, il massimo centro traumatologico della zona, non avrebbe potuto ospitare un grande numero di vittime.

Conclusione. Nel momento in cui i Servizi segreti si resero conto che un terzo aereo si stava dirigendo verso la Casa Bianca (e poi con un brusco cambiamento di rotta al Pentagono), non disponevano di una procedura per abbatterlo e comunque i caccia avrebbero dovuto coprire 200 km prima di arrivare a Washington. Ma a parte una misura così drastica e ipotetica come l'abbattimento, fu abbondantemente chiaro che l'entità di un possibile attacco terroristico sulla capitale degli Stati Uniti era stata largamente sottostimata nei piani di emergenza, qualora ci fossero. Gli scenari erano troppo modesti, soprattutto riguardo il probabile livello di caos, e i piani esistenti erano né comprensivi né sufficientemente chiari a proposito dei probabili rischi. Infatti, una simulazione di emergenza eseguita durante il mese di giugno 2001 prevedeva un attacco chimico all'aria aperta davanti al Museo Nazionale Smithsonian, senza danni e con pochissime vittime.

Inoltre, l'Agenzia di Protezione Civile della Città di Washington non aveva né i fondi né la manodopera per creare e rodare un piano di emergenza delle dimensioni necessarie. In seguito alla crisi la sua organizzazione madre, la FEMA, chiese (e generalmente ottenne) $250 milioni a settimana per eseguire opere di soccorso: somme infinitamente superiori a quelle che erano richieste (e non ottenute) per finanziare la pianificazione prima degli attentati.

Secondo il consenso che prevaleva prima dell'11 settembre, la città aveva bisogno di piani ben codificati ma largamente generici, come il piano 'Threatcon' (threatening conditions, cioè, condizioni minacciose) delle Forze armate statunitense, il quale elenca le operazioni da eseguire ad una serie di livelli di allerta. Il Threatcon ha funzionato abbastanza bene durante le emergenze a New York e Washington, ma come strumento per affrontare tali disastri non era sufficiente.

Conclusione

Se gli oltraggi terroristici dell'11 settembre 2001 rimarranno una serie di eventi piuttosto unici nella storia oppure inaugureranno una nuova epoca di attentati, non si sa ancora. Gli eventi di quel giorno hanno avuto luogo in mezzo a delle città ricche di risorse e quindi le fonti di assistenza non sono mancate . Casomai il contrario: la congestione e le reazioni di convergenza verso il luogo dell'attentato costituirono un problema di grande rilievo. Come necessaria conseguenza , le misure per domare la confusione furono necessariamente drastiche. In questo senso il terrorismo provoca ,per forza, una risposta più autoritaria rispetto ad altre forme di disastro, con la sola eccezione della guerra vera e propria. I pianificatori di emergenza dovranno affrontare meglio questo problema per poter integrare la Protezione civile in una struttura di risposta al terrorismo dominata da polizia e forze militari.

I problemi medici, psicologici, economici e strategici causati dal disastro andranno avanti per anni, con impatti profondi, non soltanto sulle famiglie delle vittime e sulle prospettive per la pace a livello mondiale, ma anche sulla comunità della Protezione civile statunitense. Si spera, comunque, che gli eventi di quel terribile giorno, e tutto il suo seguito domestico e internazionale, stimoleranno un miglioramento della pianificazione di emergenza, con 'regole di combattimento' più precise e scenari di risposta più dettagliati e accurati. Creare questi strumenti è considerato un obbligo da molti operatori nel settore che vogliono rendere omaggio ai coraggiosi soccorritori che hanno perso la vita nel cuore di Manhattan.

Tabella n. 1. Tempi di evacuazione della World Trade Center, New York

Tempi teorici di evacuazione
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Pauls (1980) equazione di flusso medio

10.000 persone per scala ' 2 ore 14 minuti per uscire
20.000 persone per scala ' 2 ore 41 minuti per uscire
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Pauls e Jones (1980) equazione per il tempo totale di evacuazione

10.000 persone per scala ' 1 ore 59 minuti
20.000 persone per scala ' 3 ore 56 minuti
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Tempi misurati di evacuazione

Quenemoen et alii (1996) evacuazione in seguito alla bomba e l'incendio del 1993

Tempi di evacuazione per 161 persone:
48% meno di 60 minuti
27% tra 60 e 120 minuti
25% più di 120 minuti

L'11 settembre 2001, il crollo delle due torri terminò le evacuazioni 62 e 103 minuti dopo l'inizio della crisi con circa il 90% delle persone evacuate.
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Opere citate:

Pauls, J.L. 1980. Building evacuation research findings and recommendations. In D. Canter (curatore) Fires and Human Behavior. John Wiley & Son, New York.

Pauls, J.L. e B.K. Jones 1980. Building evacuation: research methods and case studies. In D. Canter (curatore) Fires and Human Behavior. John Wiley & Son, New York.

Quenemoen, L.E., Y.m. Davia, J. Malilay, T. Sinks, E.k. Noji and S. Klitzman 1996. The World Trade Center bombing: injury prevention strategies for high-rise buildings. Disasters 20(2): 125-132.

La protezione civile e il problema del terrorismo



Questa relazione offre (a) alcuni appunti sul possibile coinvolgimento delle forze di protezione civile negli incidenti terroristici, (b) una breve escursione sul problema della gestione delle situazioni che coinvolgono ostaggi. Dopo i moti popolari a Seattle, Londra e Genova, dopo gli attentati terroristici negli Stati Uniti, dopo l'antrace, e dopo il tentativo di avvelenare il quartiere di Roma che contiene l'Ambasciato Americano, c'è un rinnovo di interesse nella questione del terrorismo. C'è bisogno di una pianificazione più innovativa, e di rivedere gli scenari su cui è basata la programmazione degli interventi. La protezione civile è già coinvolta in questo processo, ma non senza una certa difficoltà, morale se non operativa, quando si tratta di decidere quale sarebbe il suo ruolo giusto.

Tre sono i principali dilemmi in questo settore.

(a) Sembra che si stia rischiando di tornare dalla protezione civile alla difesa civile, cancellando una buona fetta del progresso fatto nella democratizzazione della prima. La difesa civile è più autoritario e più riservata: non è un buon sistema di gestione dei disastri naturali, neanche della maggior parte di quelli tecnologici. C'è rischio che la protezione civile diventi imbrogliata nella questione della libertà dell'individuo.

(b) I principi di neutralità e di imparzialità, essenziali all'erogazione dei servizi di soccorso, potrebbero essere compromessi quando la protezione civile interviene insieme alle forze dell'ordine contro protestanti e dimostranti. Intanto, lo stesso terrorismo non è sempre una questione di bianco e nero.

(c) E' estremamente difficile pianificare gli interventi atti a combattere il terrorismo. Il terrorista (altrettanto il dimostrante) cercherà di superare in astuzia i provvedimenti della pianificazione. Addirittura, egli potrebbe leggere il piano per sapere come agire meglio. D'altronde, la pianificazione segreta ha molti aspetti negativi. Per di più, non è chiaro per quale entità di incidente si dovrebbe pianificare (una bomba in una valigia o l'esplosione di un ordigno nucleare in una centrale elettrica?). Il terrorismo è infinitamente adattabile alle circostanze del momento...

L'unica cosa sicura in questo momento è che gli attentati dell'11 settembre 2001 in America hanno cambiato le regole del gioco nel settore della emergency preparedness. Come sono cambiate dipenderà da che tipo e che entità di attentato avviene nel futuro, e quindi anche dall'andamento delle relazioni internazionali. Non è un buon momento per fare previsioni.

Il terrorismo e la protewzione civile: aspetti generali

Perché gli incidenti terroristici sono diversi da altri tipi di disastro:

- alla base c'è la malevolenza e il cattivo comportamento umano;
- non sono eventi moralmente neutri che tutti possono considerare un nemico comune;
- è fondamentale il conflitto di interessi tra comportamenti legali e illegali;
- solitamente, le forze dell'ordine prendono il comando assoluto della situazione.

La protezione civile può essere coinvolta per fornire:
- spegnimento di incendi;
- assistenza generale di supporto per le forze in prima linea;
- aiuto e soccorso a vittime;
- aiuto alla messa in sicurezza di edifici danneggiati;
- un supporto psicologico alle vittime;
- servizi medici di emergenza.

Nella pianificazione di emergenza, è particolarmente difficile costruire scenari per attacchi, attentati, bombe, sommosse e moti popolari: i protagonisti di questi eventi cercano sempre di confondere le autorità, talvolta cambiando tattica all'ultimo momento in base ad una 'lettura' dei piani predisposti, talvolta emettendo preavvisi falsi o confusionari. In tali casi la pianificazione di emergenza diventa ridondante (almeno parzialmente), e si tratta di improvvisare le tattiche atte a sconfiggere la malevolenza.

Malgrado questo, i piani di emergenza progettati per affrontare il problema terrorismo dovrebbero dettagliare le forme di collaborazione che si avrà tra le forze dell'ordine e i servizi di emergenza. Per di più, quali forme di allerta verranno usate in caso di un attacco terroristico?

Se si tratta di barriere, cordoni o perimetrazione del luogo di un incidente, o di un quartiere di una città, dove sarà il posto di aggruppamento dei veicoli di emergenza? Quali segni speciali e procedure verranno usati per distinguere lavoratori della protezione civile dalla polizia e dai terroristi (rispetto sia alle operazioni di soccorso che alle comunicazioni via radio o telefono)? Come sarà integrato il personale della protezione civile nella struttura operativa della polizia o delle forze militari e quali ruoli dovrà assumere? Dato che si tratti di situazioni di conflitto, quanto si dovrebbe garantire la neutralità delle forze di protezione civile; infatti, quanta neutralità dovrebbero avere?

La pianificazione di protezione civile prima dell'evento dovrebbe:

- cercare di garantire la sicurezza del personale, delle loro condizioni di lavoro, e dei loro mezzi e attrezzi;


- garantire che i lavoratori di protezione civile non saranno messi in una posizione in cui potrebbero essere presi in ostaggio o diventare bersagli dei terroristi (o, per errore, delle forze dell'ordine);

- predisporre un alto livello di collaborazione tra polizia (o unità militari) e unità civili di soccorso;

- allestire una catena di comando che rifletta le realtà della situazione.

Non è escluso che le strutture e le procedure pianificate per il terrorismo debbano essere più autoritarie e 'monolitiche' di quelle adoperate per altre emergenze.

Gli interventi medici (triage, trasporto in autoambulanza e intervento chirurgico) potrebbero essere più onerosi e complicati nel caso dello scoppio di una bomba rispetto ad altri eventi di una grandezza simile. Questo fatto deve essere preso in considerazione nella pianificazione.

Gli ostaggi

Cosa fare nel caso della presa di ostaggi?

Nella maggior parte dei casi, una situazione che include la presa di uno o più ostaggi sarà gestita da una persona (probabilmente un poliziotto o un carabiniere) che è ben addestrato nelle tecniche di negoziato. E' comunque utile per chi si occupa di protezione civile sapere gli elementi del problema e le linee guida per gestirlo.

In genere, esistono quattro tipi di persone che prendono ostaggi:

- malviventi professionisti che prendono ostaggi quando una rapina falisce;
- persone che soffrono di disturbi mentali;
- terroristi;
- persone coinvolte in disturbi domestici o familiari.

Sebbene un incidente possa coinvolgere un singolo ostaggio o un intero aereo pieno di persone così trattenute, le tattiche del negoziato sono sostanzialmente le stesse. L'addestramento di un negoziatore dà enfasi alla pazienza, la tranquillità, la capacità di anticipare sviluppi e notare cambiamenti nella situazione, e l'abilità di rimanere in controllo dei negoziati.

Le regole d'arte sono:

- cercare di evitare il coinvolgimento nei negoziati di terzi (cioè, usare un negoziatore soltanto, preferibilmente senza sostituzioni a mezzo percorso);


- mai provare di imbarazzare o far vergognare l'individuo che ha preso gli ostaggi;


- fare sempre domande aperte e prive di aria di giudizio;


- mai cedere alle domande o riconoscere gli ultimatum;


- cercare di non litigare con il soggetto, essere cortese e lasciarlo dire il suo;

- cercare di interpretare la situazione e di scoprire che cosa la risolverebbe.

Il tipico negoziato per liberare ostaggi dura tra 8 e 12 ore. Però, il periodo più critico è quello dei primi 45 minuti, nei quali è essenziale costruire un rapporto con la persona che ha preso gli ostaggi.

Per concludere bene la situazione bisogna gestire bene il coinvolgimento dei mass media, soprattutto le stazioni radio. L'individuo che trattiene gli ostaggi potrebbe avere accesso ad una radio, e le notizie che ascolta potrebbero influenzare negativamente il percorso dei negoziati, soprattutto se egli diventa arrabbiato. Un buon negoziatore cerca sempre di spegnere la micia della rabbia per arrivare alla liberazione degli ostaggi senza violenza.

Tuttavia, non è mai facile decidere quando è necessario cessare i negoziati e mandare dentro le teste di cuoio....!

La formazione in materia di protezione civile: tendenze attuali



Negli anni recenti c'è stato un notevole aumento nel numero di istituzioni nel mondo che hanno promosso corsi di formazione per operatori di protezione civile. Finalmente si sta affrontando con serietà il problema di come produrre un sufficiente numero di coordinatori di emergenza e competenti pianificatori del disastro.

Nel mondo diverse Università ed altre istituzioni hanno istituito corsi di diploma, lauree o corsi post-laurea in questo settore. Come significativi esempi, la George Washington University negli Stati Uniti e l'Università di Coventry in Inghilterra hanno lauree nella gestione delle emergenze. L'Università della California a Berkeley ha una laurea breve di disaster management, e l'Università di Wisconsin dispone di una gamma diversificata di corsi a distanza. Nuovi corsi sono spèesso presenti in Internet, con accesso illimitato oppure riservato agli studenti formalmente iscritti.

Per quanto riguarda la formazione di operatori della protezione civile, gli americani, gli australiani e i canadesi sono i più avanzati; tuttavia, il settore sta prendendo campo rapidamente in India e in varie nazioni dei Caraibi. Fra i vari enti attivi nel settore si può citare la Emergency Management Australia (http://www.ema.gov.au/), la Australian National University (www.anu.edu.au) e la Simon Fraser University of British Columbia (hoshi.cic.sfu.ca/epix/), le quali sono pionieri nell'uso innovativo della World Wide Web per l'esposizione di materiale didattico inerente la protezione civile.

Negli Stati Uniti la Federal Emergency Management Agency (FEMA) ha creato un ufficio per incoraggiare ogni Stato ad avere almeno una università che offre qualche tipo di formazione sulla gestione delle emergenze e sulla pianificazione del disastro (i dati su quest'iniziativa sono disponibili in rete al seguente indirizzo: www.fema.gov/emi/). Inoltre, un aggiornamento settimanale viene rilasciato dalla FEMA (vedi mail.speccomm.com:81/guest/RemoteListSummary/HigherEd o manda un messaggio ad asebring@emforum.org).

La FEMA offre un supporto per lo sviluppo di corsi e incoraggia la standardizzazione del materiale offerto da altre istituzioni. A questo scopo, la Emergency Management Institute della FEMA ha sviluppato un iter istruzionale che consiste di 25 corsi che saranno, o sono già, liberamente scaricabili da Internet (vedi www.fema.gov/emi/). Ognuno di questi offre un programma dettagliato per un corso di 40-50 ore, accompagnato da bibliografie e esercizi da fare. I corsi affrontono temi come la sociologia dei disastri, la gestione delle emergenze nel settore del turismo, e l'intervento specialistico per gestire gli incidenti collegati con il rilascio di materiali tossici.

Tuttavia, nonostante questi aspetti positivi, non esiste un accordo generale sul contenuto di un corso per la formazione di disaster manager. Non c'è, inoltre, uno standard di tipo ISO che specifica i livelli e i requisiti dei corsi. Non c'è neanche una posizione concorde su chi dovrebbe essere addestrato, a quale livello e per quale scopo. Questa mancanza di accordo è particolarmente problematica, dato che essa pone limiti sulla condivisione dell'informazione a livello internazionale, o persino tra le rilevanti organizzazioni. Essa probabilmente riflette in parte l'immaturità del campo della protezione civile, gran parte della quale risale in termini operativi da non prima della fine della Guerra fredda (cioè, da dopo il 1989).

Malgrado la mancanza di omogeneità nella qualità e nel contenuto dei programmi di formazione che ci sono in varie parti del mondo, c'è abbastanza consenso per creare un prototipo di programma standardizzato in modo tale da garantire una sufficiente copertura a chi deve essere addestrato per gestire le emergenze in prima persona. In altre parole, la figura del 'Disaster Manager' (DiMA) ha acquisito un profilo distinto.

A titolo di esempio, un tipico programma di 3 anni potrebbe consistere in 4 parti, rispettivamente: (a) l'istruzione accademica di base nelle apposite scienze; (b) l'addestramento specifico nelle tecniche di management e nelle caratteristiche delle emergenze; (c) una tesi di ricerca (ad esempio sulla riduzione della vulnerabilità o su specifici tipi di intervento d'emergenza); e infine (d) un periodo di tirocinio pratico nel campo.

A parte l'insegnamento degli aspetti pratici, è essenziale offrire ai partecipanti un senso più largo delle culture in cui nascono e vengono affrontate le situazioni di emergenza, ed anche un quadro d'insieme delle tendenze generali della pericolosità dell'ambiente umano, della sua vulnerabilità alle calamità e della gestione delle risultanti emergenze. È necessario incoraggiare gli allievi a cercare informazioni oltre i confini del proprio ambiente di studio e di vita: per questo è essenziale un grado di familiarità con l'inglese, e perciò questa lingua dovrebbe essere insegnata nell'ambito della formazione per la protezione civile. Per il resto, l'accesso ad Internet ha reso relativamente facile la ricerca di informazione, sebbene sia necessario saper guidare il processo.

La formazione dovrebbe ovviamente prendere in considerazione i nuovi sviluppi nella pianificazione e nella gestione dell'emergenza. Entrambi questi settori hanno subito una rivoluzione nell'impiego dell'informatica. Nel primo, questa ha dato luogo all'automatizzazione della cartografia del rischio, della vulnerabilità e nella risposta all'emergenza tramite sistemi di informazione georeferenziata. Nel secondo, si ha l'impiego di sistemi computerizzati di supporto per le decisioni di emergenza. Questi sviluppi sono così importanti e così indicativi delle tendenze future che i corsi di formazione dovrebbero includere dei moduli di addestramento nell'apposito uso del computer e del GIS, dato che entrambi saranno essenziali al disaster manager del futuro.

È difficile accedere alle risorse didattiche in questo settore, le quali sono parecchio disperse. Molte delle più utili pubblicazioni sulle emergenze fanno parte della cosidetta "letteratura grigia", la quale è difficile da ottenere ed è disponibile soltanto in certi luoghi e certi periodi. La buona formazione richiede un supporto di risorse bibliografiche e informative difficile da mettere insieme, dato che molte di queste non sono immediatamente reperibili nelle biblioteche di istituti e dipartimenti universitari. Si può comunque potenziare quello che si può raccogliere con un percorso guidato tra la straordinaria ricchezza di siti Internet che trattano della protezione civile. A questo proposito, un sito riassuntivo americano (ltpwww.gsfc.nasa.gov/ndrd/disaster/) offre accesso a ben 652 altri siti della World Wide Web che trattano della gestione delle emergenze.

Per di più, le risorse rese disponibili agli studenti di un corso di protezione civile possono essere potenziate mediante l'allestimento un sito della World Wide Web dedicato al corso che espone materiale bibliografico, fotografico, e didattico, più i programmi e alcuni esercizi.

Da tutte queste riflessioni diventa chiaro che il futuro della formazione risiede nell'integrazione dei metodi didattici tradizionali con le cosiddette "reti asincrone di apprendimento", ovvero la formazione a distanza a base di Internet e altre reti di comunicazione.

Un buon corso di formazione per disaster manager dovrebbe sviluppare le seguenti competenze:

(a) una conoscenza della legislazione nazionale e regionale in materia di protezione civile e del mantenimento della sicurezza ambientale e del lavoro;

(b) competenza nella lingua inglese per acquisire informazioni da fonti internazionali e per comunicare con persone ed enti all'estero o provenienti dall'estero;

(c) la capacità di ricercare appositi argomenti e di sviluppare piani di emergenza;

(d) l'abilità di usare mezzi informatizzati per ricercare informazione, preparare documenti, comunicare a distanza, creare e leggere carte geografiche, offrire un supporto alle decisioni, e gestire i rapporti con persone esterne alla protezione civile;

(e) l'abilità di gestire rapporti con i mass media e il pubblico generale, soprattutto durante i tempi di emergenza;

(f) la capacità manageriale e l'abilità di gestire rapporti interpersonali, comprese l'abilità basilare di comunicare con efficacia;

(g) l'abilità di pianificare e la conoscenza delle tecniche della pianificazione di emergenza;

(h) la capacità di capire e interpretare le informazioni geologiche, scientifiche, ingegneristiche e architettoniche legate ai disastri.

Da questi punti risulta chiaro che la formazione di operatori della protezione civile richiede un approccio alla materia di tipo 'orizzontale', non 'verticale'. A questo proposito, la divisione tradizionale del mondo accademico in discipline mutualmente esclusive costituisce una barriera allo sviluppo dei corsi di disaster manager, i quali necessitano di una sintesi di discrete quantità di informazioni che possano provenire fino da 30 diverse discipline e campi accademici. Probabilmente la risposta a questo problema risiede, non nell'organizzazione interdisciplinare, ma in un approccio nondisciplinare, in modo tale da sconfiggere definitivamente i confini tra le discipline accademiche, i quali dimostrano quanto la tradizionale organizzazione delle scienze è stata superata e come non va d'accordo con i veri bisogni moderni. Il problema, non la disciplina, dovrebbe definire la metodologia dell'insegnamento e la scelta del materiale da includere nel programma didattico. Questo richiederà la presenza di insegnanti capaci di adattare la loro conoscenza così da varcare i confini delle varie discipline.

In fin dei conti, il disaster manager deve essere formato in modo tale da poter riconoscere e risolvere efficientemente i problemi di natura urgente e strettamente pratica. Quindi, i corsi devono essere fortemente orientati verso la definizione dei più importanti dilemmi operativi, e devono offrire i giusti mezzi per risolvere le difficili situazioni che gli allievi dovranno affrontare durante il lavoro. Le idee teoriche possono essere particolarmente utili a questo livello, dato che in mezzo al caos del disastro la teoria, appositamente selezionata, fungerà come una specie di 'carta stradale' per orientare il disaster manager. A scala mondiale, mezzo secolo di scoperte nelle scienze sociali e applicate ha fornito una base solida per poter insegnare gli elementi del management, della presa delle decisioni in base a criteri tecnici, e dell'abilità di riconoscere i vari aspetti della pericolosità.

Dato che si tratta di proteggere l'intera popolazione contro gli impatti dei disastri, c'è bisogno di addestrare bene un grande numero di disaster manager. I posti di lavoro, attualmente non numerosi, arriveranno prima o poi per i laureati in questo campo, dato che ogni nuovo disastro che affligge il paese susciterà una domanda pressante di un ambiente più sicuro e una protezione civile gestita con sempre maggior professionalità. Con probabilità, anche la situazione legislativa verrà adeguata in modo che solo gli aspiranti con appositi titoli professionali potranno pianificare e gestire le emergenze. Sin da ora è comunque essenziale prepararsi per queste nuove occasioni tramite l'allestimento di corsi di formazione di natura flessibile seppur rigorosa.

Lo stress post traumatico



In reali situazioni di emergenza e disastro il disordine dello stress post-traumatico (DSPT) è complicato tale da richiedere la presa di decisioni difficili e talvolta agonizzanti, in molti casi senza il tempo e l'informazione necessari per illuminare la gamma di possibili soluzioni. Quindi, la mancanza di una singola risposta 'da manuale' al problema è poco sorprendente. Ma dato che il DSPT è un fenomeno ben conosciuto e largamente ricercato, ormai le soluzioni non mancano.

Come accennava la dott.ssa Ricciardi, alcuni studiosi considerano il DSPT una patologia legata ad errori di programmazione del cervello umano rispetto alle rapide reazioni al pericolo del tipo che nel lontano passato garantiva la sopravvivenza e l'evoluzione della nostra specie.[1] Per altri, invece, è un problema di sintomi psicologici e somatici.[2] Ma mentre alcune reazioni di avversione, ad esempio il panico, furono studiate a partire degli anni 1930, ci è voluto un altro mezzo secolo per arrivare alla precisa definizione del DSPT. Abbiamo, quindi, solo 20 anni di conoscenza scientifica del problema, sebbene siano anni di studio molto intenso. Ancora meno è il periodo di indagini sullo stress dell'incidente critico (SIC), la reazione psicologica di vittime e soccorritori ad eventi di impatto brusco, traumatico e disastroso, il quale costituisce il cuore del problema in discussione.

Dato che le maggiori definizioni elencano ben 17 sintomi, raggruppati in 3 categorie, il DSPT può essere considerato un fenomeno di definizione molto larga.[3] Altrettanto è la gamma di soggetti coinvolti, che comprende vittime primarie (se toccate direttamente dal disastro) e secondarie (se esse denunciano effetti indiretti, come il lutto), lavoratori di emergenza (soccorritori, personale sanitario, disaster manager, ecc.), e professionisti della salute mentale, i quali possono crollare sotto l'effetto di lavorare intensamente con i problemi dei membri delle altre categorie.

Malgrado l'esistenza di alcune centinaia di pubblicazioni sul fenomeno, le stime dell'incidenza del DSPT sono tuttora vaghe: nella spanna della vita delle persone coinvolte, esso può incidere con l'1-25% della popolazione generale, il 20-40% dei combattenti feriti in guerra, il 10-30% delle vittime dei disastri di impatto più brusco, profondo e inatteso, e forse il 10-25%, all'incirca, dei soccorritori di prima linea.

I ricercatori hanno studiato il DSPT sia dal punto di vista clinico che da quello applicativo.[4] Essi hanno:

- studiato le condizioni ambientali e sociali che danno luogo al fenomeno,
- investigato i processi psicologici che lo generano,
- codificato le reazioni psicologiche alle situazioni di stress esagerato,
- raccolto informazioni riguardo l=incidenza del fenomeno sul campo, e
- formulato soluzioni nonché testato la loro efficacia.

Dato che i compiti difficili, pericolosi e traumatizzanti devono comunque essere eseguiti, è molto improbabile che il DSPT possa essere eliminato completamente. Ciò nonostante, la ricerca ci offre una serie di strategie per aiutare a ridurre, evitare o curare il fenomeno. La chiave alla sua gestione è una combinazione di:

- accumulare e disporre risorse in modo tale da ridurre l'incidenza da DPTS tra il personale di emergenza,
- essere sensibile al problema e elaborare piani atti ad affrontarlo prima, durante e dopo i disastri e gli incidenti, e
- sviluppare una leadership all'altezza psicologica della situazione, nella quale il comportamento del leader diventa un buon modello per i suoi seguaci.

Prima del disastro i lavoratori di emergenza possono essere preparati, tramite i corsi di formazione e addestramento che affrontano il problema in modo esplicito, psicologicamente per le situazioni che diano luogo al DSPT. In uno degli studi originali del problema, nell'ambito di un'investigazione post-disastro della tromba d'aria che devasto la città di Worcester, Massachusetts nel lontano 1953, lo psicologo Anthony Wallace trovò che molti soccorritori evitarono il trauma mentale aderendo fortemente ai loro lavori di medici, pompieri, ricercatori di superstiti, ecc.[5] L'abilità di usare il proprio ruolo professionale come scudo contro l'urto psicologico del disastro, cioè di mantenere il distacco necessario per proteggere la propria psiche, può essere potenziata tramite alcune iniziative di formazione specificate nei manuali.[6]

Durante un incidente critico o un disastro, il DSPT può essere limitato utilizzando alcune strategie di pianificazione e gestione, come le seguenti:

- limitare il tempo che i soccorritori trascorrono in ambienti pericolosi o traumatizzanti utilizzando le squadre a rotazione, aumentando la frequenza o la durata delle soste di riposo, prendendo misure per ridurre la stanchezza dei lavoratori, e dividendo le responsabilità tra più persone,

- creare aree primarie e secondarie di ammassamento dei soccorritori e roteando le squadre per brevi periodi tra queste e il sito dell'incidente (ove possibile, le aree di ammassamento dovranno essere attrezzate con posti di ristoro e di assistenza medica per gli stessi soccorritori),

- creare sistemi di gemellaggio o di sorveglianza mutua tra paia di soccorritori, e

- prendere la decisione di ritirare quei soccorritori che mostrano segni di eccessiva stanchezza, stress o disturbo emozionale.

Ormai, le strategie utilizzate per trattare il DSPT e il SIC sono ben sviluppate (vedi nota 6). Esse possono essere divise tra due principali categorie: metodi che socializzano il fenomeno o lo esternano in modo costruttivo, e quelli legati alle tecniche di cura individuale. I primi comprendono le riunioni di debriefing e le cerimonie di commemorazione degli eventi, mentre i secondi riferiscono a terapie psichiatriche, assistenze sociali e cure mediche.

In sintesi, il mondo della protezione civile deve affrontare il problema del DSPT con più serietà. Servono più campagne di informazione, formazione e addestramento. Esistono varie soluzioni al problema, ma la strategia più adatta dipende da circostanze di taglio locale e particolare. Ciò nondimeno, tali circostanze dovrebbero essere previste negli scenari di base che formano la base della buona pianificazione di emergenza e quindi il problema del DSPT dovrebbe essere affrontato già nella stesura del piano. Infatti, un piano che non salvaguarda la salute mentale del personale di emergenza è da considerare incompleto.

Note

[1]. Silove, D. 1998. Psychiatry 61(2): 181-190.

[2]. Taylor, S. et alii 1998. Journal of Abnormal Psychology 107(1): 154-160.

[3]. American Psychiatric Association 1994. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV). American Psychiatric Association, Washington, DC.

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