Introduzione: il bisogno di migliorare la pianificazione e la gestione dei disastri
Negli anni recenti a livello mondiale l'impatto delle catastrofi è diventato sempre più profondo. Attualmente, succedono ogni anno circa 320 disastri, di cui due terzi sono di origine naturale e gli altri hanno una causa di origine tecnologica. All'incirca, 150.000 persone muoiano, il 94% di esse nei disastri naturali, e circa 150 milioni di persone vengono colpiti direttamente da calamità. Secondo una recente stima, dal 1950 al 2000 il numero di catastrofi naturali e tecnologici è aumentato del 250%, il numero di disastri con vittime del 500%, il numero di persone colpite del 500% e il costo totale di tali eventi del 1500% (le perdite assicurate sono aumentate addirittura del 1640%). Comunque, i miglioramenti dei processi di preavviso, di evacuazione, di riduzione dei rischi e di preparazione per gli eventi hanno tenuto la tasse di mortalità piuttosto stabile: anche se più disastri hanno causato vittime, meno persone sono morte, mediamente, in ciascun evento.
Malgrado questo quadro, in termini di danni e di perdite, l'entità del disastro più costoso è aumentato di un ordine di magnitudo ogni decennio. Cosi, il grande terremoto Hanshin-Kobe in Giappone nel 1995 è costato US$131,5 miliardi, ben 12 volte più del sisma di Loma Prieta avvenuto nella California nel 1989. Ma le previsioni per una ripetizione del terremoto che colpì l'area metropolitana di Tokio nel 1923 da delle stime di costo intorno ai US$2.800 miliardi.
In Italia negli anni recenti la mortalità è stata maggiormente ristretta a bassi numeri di persone ammazzate da alluvioni e frane. Complessivamente nel periodo 1971-2000, i disastri hanno ammazzato quasi 200 Italiani all'anno e colpito più di 75.000. Comunque, dal 1915 e il disastro di Avvezzano, nessun terremoto è avvenuto con epicentro nei pressi di un grosso centro di popolazione. Però, con circa 700.000 persone a rischio di eventi sismici e vulcanici nella Sicilia orientale e un simile numero vulnerabile sui fianchi del Monte Vesuvio, il potenziale per un disastro nazionale di grossissime proporzioni rimane alto. Infatti, il rischio sismico, che nel ventesimo secolo ha preso le vite di 128.000 italiani, interessa il 40% della popolazione e più di un terzo dei comuni.[1] Perciò, a livello mondiale l'Italia occupa il quarto posto per magnitudo dei disastri sismici.
Come altrove, così in Italia, l'entità del costo dei disastri è in costante aumento. Ad esempio, le stime dei costi delle alluvioni Piemontesi erano almeno il 60% di quelli del terremoto Irpino di 16 anni prima, malgrado che il sisma Campano-Lucano abbia interessato una zona più vasta, in modo più profondo, facendo più vittime.
Esistono vari motivi per queste tendenze alla crescita delle perdite. In questo momento è troppo presto per sostenere con convinzione che il cambiamento del clima e l'innalzamento del livello del mare stiano già causando più disastri, oppure disastri più profondi, ad esempio provocando tempeste più intense, alluvioni più imponenti e maggiori ondate di freddo e di neve, anche se in fine questo potrebbe essere il caso. Le principali cause sono, quindi, legate al sistema socio-economico.[2] Nelle aree di particolare rischio, il costante aumento della popolazione e della sua mobilità, e le maggiori concentrazioni di capitale fisso stanno mettendo a rischio più persone e maggiori ammucchiamenti di beni. Per di più, le stime più recenti dei costi dei disastri sono state molto più sofisticate che nel passato più remoto. Ormai, esse prendono in considerazione le coste nascoste e esterne degli impatti, come il valore delle vendite che vengono bloccate a causa dell'interruzione della produzione o della distribuzione dei merci. Nello stesso tempo, il costante potenziamento dei legami tra i vari sistemi di produzione, distribuzione e finanziamento ha reso questi più vulnerabile all'interruzione da catastrofi di varia natura.
Mentre, a livello mondiale, le iniziative per ridurre i rischi sono riusciti a bloccare l'aumento della perdita di vite (maggiormente tramite alcuni miglioramenti delle tecniche di costruzione edile e dei processi di preavviso e di evacuazione), esse non sono ancora riuscite ad arrestare l'inesorabile aumento dei costi. In parte questa situazione risulta dall'inadeguatezza delle fonti del capitale usate per finanziare la mitigazione; in parte le forze del mercato non sono state efficaci simultaneamente a garantire la libertà dell'individuo e scoraggiarlo a prendere rischi eccessivi.[3]
Mentre la riduzione dei rischi di calamità naturale quasi sempre da luogo a rapporti costi-benefici positivi (cioè, si risparmia più nei danni non avvenuti che si spende nelle opere di prevenzione), questo ha raramente indotto le autorità civili a potenziare le opere di mitigazione. Infatti, in molti casi gli appositi dati non vengono compilati. Purtroppo, le restrizioni fiscali hanno dato luogo ad una tendenza a risparmiare denaro evitando o riducendo le preparazioni per il prossimo disastro. Ad esempio, raramente è la devoluzione dei poteri da un governo centrale a quelli regionali, provinciali e locale accompagnata da un finanziamento sufficiente per compiere le opere necessarie. nello stesso tempo, le tentative a coinvolgere il settore privato nelle iniziative di prevenzione hanno avuto risultati misti. In genere, le compagnie private non sono disposte a prendere responsabilità per i rischi di perdite che non possono essere ben previste o sufficientemente compensate tramite guadagni e profitti.
Forse il campo in cui più benefici sono stati finora tratti dal coinvolgimento del settore privato nelle opere di mitigazione dei disastri e quello dell'assicurazione, nel quale c'è stata una crescita eccezionale nella copertura contro le catastrofi. A livello mondiale negli ultimi 10 anni, il rimborso assicurativo delle perdite sostenute nei disastri è cresciuto da meno del 10% a più del 16%.[4] Comunque, il settore dell'assicurazione contro i disastri denuncia notevoli problemi. Per primo, i rischi non sono ben distribuiti tra gli assicurati, un fatto che indica un certo livello di sussidiario di chi corre rischi più bassi rispetto a chi è più esposto, soprattutto perché i premi non possono essere sempre proporzionati ai livelli di rischio. Questo significa che l'assicurazione non può essere facilmente utilizzata per scoraggiare chi compra una polizza perché la sua proprietà è esposta a rischi elevatissimi. In secondo luogo, la copertura in questo settore non è sufficientemente comprensiva, i rischi non sono abbastanza coperti dagli investimenti e le fonti di capitale sono insufficienti.
L'esperienza del passato dimostra che in sé i disastri tendono a creare una domanda per il miglioramento della sicurezza pubblica. Negli Stati Uniti, ad esempio, la legislazione federale di base, la Robert T. Stafford Disaster Relief and Assistance Act del 1993, è stata promossa in seguito ad Uragano Andrew (del 1992), a quel punto il disastro più costoso nella storia del paese, e le peggiori alluvioni mai avvenute nel bacino Mississippi-Missouri (dell'estate 1993). A corto termine, il periodo che segue un disastro, oppure uno sciame di disastri, rappresenta un Afinestra di opportunità@ per migliorare la sicurezza pubblica. In questo intervallo di tempo la domanda da parte del pubblico per migliorare la sicurezza è alta, il sostegno delle apposite misure presente nell'arena politica, e i fondi per realizzare piani ed opere di mitigazione potrebbero essere disponibili.[5]
Finora, la 'finestra di opportunità' non ha impedito il numero di disastri e l'entità dei loro impatti di aumentare. Comunque, è probabile che nei prossimi 25 anni le perdite diventeranno così grosse che l'abilità della società e dell'economia mondiale di assorbirle diminuirà fino al punto che i governi dovranno istituire misure più rigorose per rendere i programmi di protezione civile e di riduzione dei rischi molto più efficaci. Prima di arrivare a questo punto è quasi certo che le perdite continueranno ad aumentare.
Nel frattempo, in tutto il mondo l'aumento dei disastri ha stimolato grandi cambiamenti nell'organizzazione e nelle tecniche di protezione civile. Per primo, il livello di interesse nei disastri, da parte di popolazioni, governi e professionisti, non è mai stato così alto, il quale ha dato luogo a notevoli accelerazioni nel ritmo di innovazione nel settore. La maggior parte dei nuovi sviluppi sono ancora nelle loro fasi iniziali, ma lo stesso è chiaro che la faccia della protezione civile sta cambiando radicalmente.[6] Questo saggio esaminerà quattro forme di innovazione: nella formazione, nella tecnologia di informazione, nella politica dei disastri, e nelle iniziative internazionali. L'articolo considererà alcuni dei problemi contemporanei nel settore e le loro possibili soluzioni.
La crescita dei programmi di formazione
In questo momento il numero di programmi di formazione per pianificatori e coordinatori di emergenza è in forte aumento in molte parti del mondo. Di orientamento i corsi variano da quelli accademici a quelli nettamente applicativi e sono offerti da una larga gamma di istituzioni, da università e istituti tecnici a compagnie private. Sia tra professionisti che tra volontari la domanda è cresciuta a livelli senza precedente, fino al punto, infatti, che l'offerta di nuovi corsi e da giudicare insufficiente.[7]
In questo settore, la crescita è stata, però, caotica e poco equilibrata. Come effetto di questo, non esiste un consenso, largamente accettato, sul contenuto e sugli obiettivi dei corsi. In questo momento il coordinamento delle emergenze non gode del pieno stato di una professione. Le persone che occupano i posti di coordinatori di emergenza sono spesso secondati da altri uffici. Potrebbero lavorare sulla protezione civile solo a tempo parziale, e infine i loro titoli di studio e di formazione potrebbero non essere ideali per il compito da fare e potrebbero essere invece molto variabile di qualità, livello e indirizzo. In tutto il mondo esistono pochi posti a tempo pieno occupati da coordinatori di emergenza di ruolo permanente dotati di una formazione apposita e completa. Invece, la formazione è spesso mancante completamente, oppure non e idonea. In questo settore, molti paesi fanno largo impiego di personale militare, o ex-militare. Negli Stati Uniti, ad esempio, il tipico disaster manager è un ex-membro delle forze armate, è maschio, di media età e probabilmente ha recentemente cambiato carriera per la prima o seconda volta. La formazione, quindi, viene offerta a chi già lavora nel campo, e non è una condizione dell'assunzione nel posto.
I migliori corsi di formazione dovrebbero offrire una miscela di esperienza e teoria.[8] L'esperienza dovrebbe essere divisa in quella comunicata e raccontata da esperti nel settore e quella acquistata direttamente da contatto con i problemi nel campo (tramite la raccolta dei dati, l'addestramento nelle tecniche di gestione, la soluzione di problemi pratici, e così via). La teoria dovrebbe essere insegnata in un contesto nettamente interdisciplinare. Soprattutto, i corsi dovrebbero essere comprensivi rispetto alle fasi delle emergenze: mitigazione, preparazione, intervento tempestivo, ripristino e ricostruzione. L'orizzonte deve essere largo e l'approccio eclettico, perché i partecipanti nei corsi, chiunque siano, hanno bisogno di conoscere non soltanto i problemi e le soluzioni che appartengono alla propria area di competenza, ma anche quelli degli altri lavoratori nel campo. Da questo punto di vista, l'organizzazione tradizionale delle discipline accademiche non è idonea: invece degli stretti scompartimenti disciplinari, serve un approccio Alaterale@ che integra una vasta gamma di materie, il quale è centrato sui problemi di risolvere, non sulle discipline. Forse a causa di questo impedimento, molte università e istituti non hanno sviluppato corsi sulla gestione delle emergenze: in genere sono gli atenei meno tradizionali che entrano nel settore per primo.[9]
Malgrado la sua attuale popolarità generale, la formazione a distanza ha i suoi difetti e critici. Eppure sembra che sia particolarmente adatta all'addestramento dei coordinatori di emergenza. Molte persone che hanno bisogno di istruzione in questo campo non possono studiare a tempo pieno. Infatti i lavori di protezione civile sono onerosi tale che spesso per studiare un orario flessibile è essenziale. Questo spiega l'alto potenziale dei corsi on-line e a distanza. Come pioniere nel settore, la Emergency Management Institute della Federal Emergency Management Institute statunitense ha sviluppato 25 profili per corsi sulle emergenze, i quali possono essere insegnati in forma modulare. Anche altre istituzioni sono coinvolte, ad esempio l'università di Wisconsin-Madison (USA) and la Australian National University.
La mancanza di protocolli largamente accettati per il contenuto dei corsi ha causato una certa mancanza di internazionalizzazione del settore della formazione e quindi un'inabilità di imparare dalle esperienze degli esperti provenienti da altri paesi. Dato che il campo della protezione civile stia rapidamente internazionalizzando, questo è un problema di particolare rilievo. Inoltre, dato la mancanza di consenso su che cosa si dovrebbe insegnare, non è tanto chiaro che cosa sia una formazione efficiente. Questo significa che non ci sono standard di giudizio e di controllo della qualità, e l'efficacia della formazione non viene scrutato abbastanza. Questo è un problema che deve essere risolto tempestivamente in modo da permettere la gestione delle emergenze di diventare una vera e propria professione, ed è un fattore che la distingue da professioni già ben radicate, come l'architettura, l'ingegneria e la giurisprudenza.
In Italia, l'Articolo 108 del Decreto-Legge Bassanini del 1998 obbliga i governi regionali ad assumere la responsabilità di preparare per le emergenze e di avviare corsi di formazione per i lavoratori di protezione civile. Ci sono segni che un modello standardizzato stia diffondendo nei maggiori centri di formazione, maggiormente in base a quello che hanno allestito alcune regioni, notevolmente la Lombardia e il Piemonte.
In sintesi, la formazione è la chiave, non soltanto alla creazione di coordinatori di emergenze saggi e competenti, ma anche all'allestimento di una figura professionale in cui il pubblico può mettere la piena fiducia. Rimane molto da fare ai livelli locali, regionali, nazionali e internazionali per creare e garantire gli appositi standard di professionalità.
Sia la formazione che il vero processo di preparazione per le emergenze saranno probabilmente rivoluzionati dalla tecnologia d'informazione, l'argomento della prossima sezione.
Una rivoluzione nella tecnologia di informazione
L'informazione è, ovviamente, una delle risorse primarie nei disastri ed è anche la chiave alla loro buona gestione. Durante il periodo dopo un disastro l'informazione tende ad essere sia carente (di qualità o di rilevanza ai problemi più pressanti) che superabbondante (di quantità e di flusso). I recenti sviluppi nelle tecnologie di comunicazione (che sono ora pronte ad entrare in una nuova fase, tramite l'introduzione di protocolli post-WAP) e nell'informatica hanno dato luogo ad un nuovo approccio alla preparazione per i disastri e alla gestione delle emergenze. Da ora in avanti la tecnologia di informazione (IT) sarà sempre più centrale a questi processi.[10]
Quando si prepara per il disastro e si gestisce l'emergenza, l'efficienza viene misurata dalla tempestività e dalla qualità dei processi decisionali, i quali devono rispondere ad un flusso massiccio di informazione in arrivo al centro gestionale. Le reti cellulari, satellitari e di informatica hanno cominciato a cambiare radicalmente le tecniche di risposta all'emergenza e gli appositi bisogni di addestramento e di formazione. Ad esempio, Internet offre più di 650 siti che trattano direttamente dei disastri e delle emergenze.[11] Ma anche se Internet si è dimostrata estremamente robusta e capace di funzionare dopo gli impatti dei disastri, essa tende a subire un sovraccarico che la rende inoperabile al momento dell'emergenza. Per questo motivo, stanno diventando più comuni gli intranet e extranet, forme di 'Internet' ad accesso limitato che sono dedicate alla gestione delle crisi e dotate dei benefici di una robustezza e di una resistenza al sovraccarico.[12] In base a tali sviluppi, ora alcuni esperti, ad esempio in ingegneria strutturale oppure in ricerca dei superstiti, possono partecipare nella gestione delle emergenze in tempo reale da siti remoti, i cosiddetti 'anchor desk', dove ricevano un flusso di informazione dal luogo del disastro, a dove rimandano istruzioni e consigli tecnici su come procedere con le operazioni di soccorso. Le tecnologie sviluppate per questi usi sono abbastanza poco costose ed inoltre il loro prezzo tende sempre a diminuire perché tali mezzi diventano più comune.[13]
Nello stesso tempo, la pianificazione e la gestione delle emergenze hanno tratto benefici dallo sviluppo di programmi al computer per gestire i data. Così, è stato possibile integrare sistemi di informazione georeferenziata (GIS) con quelli dell'immagazzinamento e del prelievo di dati in modo tale da snellire e rendere più efficiente i processi di registrare, minuto per minuto, le comunicazioni eseguite e le decisioni prese. Tali innovazioni costituiscono utili e flessibili sostegni alla percezione e alla memoria del coordinatore di emergenza, ma esse richiedono lo sviluppo di nuovi metodi di affrontare il lavoro, senza le quali il disaster manager rischia di essere sommerso dalla quantità di dati e informazioni che arrivano. La selettività è la chiave a un buon metodo di lavorare in questo settore, e tramite la formazione essa deve essere sviluppato appositamente per le circostanze delle emergenze.
Il miglioramento dell'ambiente delle comunicazioni e dell'immagazzinamento delle informazione prodotto dalla IT ha dato luogo ad un cambiamento radicale del modo in cui le emergenze vengono gestite. Sempre più spesso nel mondo, gli eventi piccoli e medi (i tipi 'A' e 'B' secondo l'usanza della L225/1992) vengono affrontati tramite l'impiego di un sistema di 'comando dell'incidente' (incident command system, ICS).[14] In questo, la tradizionale struttura gerarchica di comando e controllo viene sostituita da uno più flessibile e modulare, nel quale i primi soccorritori di arrivare al sito dell'emergenza assumono controllo in veste di un nucleo operativo. L'ICS funziona come una specie di 'cassetta degli arnesi', in quanto i compiti vengono assegnati in base ai bisogni dell'incidente e alla presenza fisica di persone e unità di specifiche competenze. Se la comunicazione e la cooperazione sono sufficienti, le unità operative possono coprire, più rapidamente e con un minimo di raddoppiamento degli sforzi, tutte le esigenze che si stanno maturando al sito. Al cuore delle operazioni di emergenza, la collaborazione sostituisce il comando. Comunque, un possibile difetto dell'ICS è che esso tende a funzionare male quando alcune unità operative decidono di lavorare indipendentemente della struttura di comando imposto dal comandante dell'incidente, il quale funge come assegnatore dei compiti di soccorso.[15]
Altri problemi associati all'IT includono, non soltanto il bisogno di riorientarsi e trattare con flussi simultanei di informazione di carattere molto variabile, ma anche l'artificialità e un senso di isolamento dai veri problemi 'a terra'. Per di più, alcuni studiosi hanno trovato che la IT riduce le opportunità per il contatto e la comunicazione a tu per tu e per varie altre forme di comunicazione non verbale; in sintesi che l'uso massiccio dell'IT rischia di impoverire la comunicazione di emergenza.[16] Malgrado questo, la tecnologia d'informazione ha molte prospettive da sviluppare in questo settore nel futuro. Ad esempio, il suo potenziale per migliorare la formazione non è stato sfruttato neanche minimamente finora. In questo contesto, la IT può essere molto utile per simulare più realisticamente alcune situazioni che il disaster manager dovrebbe coordinare.[17]
Lo sviluppo della tecnologia di informazione offre un sostegno importante per la crescita dei sistemi di protezione civile. Un altro aspetto consiste nei sistemi sociali e politici che forniscano un contesto ai processi di preparazione per i disastri. Questi sono sempre più dominati dal problema della democratizzazione del campo, come verrà discusso nella prossima sezione.
I principi democratici
A livello mondiale, la protezione civile è evoluta dalle preesistenti strutture di difesa civile create per salvaguardare la popolazione civile dalle minacce di guerra e dal rischio strategico. Così, c'è stato un processo continuo di trasformazione delle strutture militari e paramilitari in quelle civili. In alcuni paesi (particolarmente gli Stati Uniti, Canada, Australia, Francia e Italia) il processo è ben avanzato. In altri (ad esempio, la Turchia, la Corea e il Taiwan) non lo è ancora. Questo problema è legato a quello del ruolo della democrazia nella risposta al disastro.[18]
E' chiaro che la protezione civile dovrebbe proteggere la popolazione, non soltanto lo stato (e certamente non dovrebbe proteggere lo stato contro il popolo). Quindi, il prezzo di una gestione effettiva delle emergenze è una certa vigilanza per assicurarsi che i poteri straordinari che tale processo richiede, o che i governi sono tentati da usare, non vengano soggetti ad abusi e non diventino un veicolo di repressione. Inoltre, per raggiungere questa meta, è essenziale che il pubblico generale contribuisca a decidere i tipi e le qualità di protezione contro le catastrofi che vengono adoperate e come vengano usati. E' importante che la protezione civile sia un processo di collaborazione tra il pubblico e lo stato, in modo tale che la popolazione venga indotta a prendere un po' di responsabilità per la propria sicurezza e lo stato viene incoraggiato dall'elettorato per assumere il resto di questo incarico. I pianificatori di emergenza devono considerare le forme di partecipazione pubblica nelle preparazione per i disastri ed assicurarsi che i rischi e le risposte ad essi siano dibattuti apertamente e pubblicizzati a sufficienza. Per avere successo, la mitigazione dei disastri ha bisogno del sostegno del pubblico, invece di essere soltanto una materia per gli esperti. La sfida del ventunesimo secolo è di creare una 'cultura della sicurezza' e della riduzione dei rischi. I pianificatori di emergenza sono in prima linea qui.[19]
La questione della democrazia ha alcuni aspetti secondari che comunque sono importanti. Primo di tutto, alcuni gruppi possono essere svantaggiati, non soltanto dai disastri, ma anche dalla risposta di emergenza. Nel Regno Unito, ad esempio, le situazioni di emergenza hanno sollevato la già scottante questione del 'razzismo istituzionale', nella quale le esigenze delle minoranze vengono ignorate (o peggio), non a causa dell'azione deliberate di un particolare individuo, ma a causa dell'inabilità di prenderle in considerazione al livello istituzionale, ovvero a quello della pianificazione. E' un fenomeno che potrebbe diffondersi in qualsiasi paese che diventa più multietnico. Inoltre, nell'America del Nord e in India, le esigenze delle donne hanno recentemente ricevuto molta attenzione nel contesto dei disastri, mentre in Giappone, la sorta dei barboni (i quali sono tagliati fuori dai normali meccanismi di soccorso) è stata investigata nel contesto dei rischi sismici. Queste questioni (di equità) incideranno sempre di più nella pianificazione di emergenza.
Siamo ancora ad un punto in cui manca una base di sostegno e finanziamento comprensivo per i programmi di riduzione dei disastri. Da questo punto di vista, ,molti paesi, l'Italia inclusa, sono in preda alle correnti conflittuali del centrismo e della devolution. Mentre è saggio pianificare l'intervento di emergenza a livello locale, un grado di coordinamento al di sopra di questo è ovviamente necessario. I programmi dovrebbero, comunque, rispondere alle esigenze di una pianificazione efficiente, non quelle del controllo politico: si tratta di scindere la protezione civile dalla politica partitocratica quanto possibile. In questo contesto, la responsabilità primaria per la pianificazione di emergenza viene spesso data alle autorità locali senza erogare fondi sufficienti per creare o completare gli appositi programmi. Dato che la protezione civile non può essere privatizzata (tali sono i rischi di perdita dei profitti e i dilemmi morali che una tale organizzazione comporterebbe), il finanziamento è un aspetto critico. Nessun modello di pianificazione generica è apparsa con applicazione veramente mondiale, ma è evidente che l'unità più efficiente per gestire le emergenze è quella del comune o di un piccolo gruppo di comuni.
Le iniziative di pianificazione a livello mondiale
A parte i dilemmi nazionali e locali della pianificazione di emergenza, ci sono anche questioni più generali di carattere internazionale. Il Decennio Internazionale per la Riduzione delle Calamità Naturali (IDNDR, 1990-2000) sponsorizzato dall'ONU ha avuto un successo parziale, sebbene non si è avvicinato al suo obiettivo di ridurre gli impatti dei disastri della metà in dieci anni.[20] E' riuscito, comunque a mettere in moto una serie di altre iniziative internazionali per la preparazione contro le catastrofi, compreso il suo proprio successore, la Strategia Internazionale per la Riduzione dei Disastri (ISDR) con base a Ginevra. Eppure, è notevole quante istituzioni internazionali non sono riusciti ad affrontare bene il problema dei disastri. Una di questi è l'Unione Europeo, i cui sforzi sono stati finora debolissimi.[21]
Ciò nondimeno, ormai esistono tante iniziative globali e regionali. Ad esempio, l'ONU ha sponsorizzato il progetto RADIUS per migliorare la sicurezza sismica delle grandi città e molti paesi hanno usufruito di questa iniziativa per mitigare tale rischio. Inoltre, lo sviluppo economico è stato combinato con la riduzione dei disastri nel progetto SPHERE di un consorzio delle maggiori organizzazioni non governative (NGO), e anche questo ha la sua base a Ginevra. Per di più, un gruppo è stato formato recentemente, con il nome Radix, per influenzare la politica dei disastri e della gestione dei rischi con l'obiettivo di indurre i governi di prendere più seriamente le proprie responsabilità in questo campo e di aumentare la loro contabilità. Lo scopo eventuale è di creare un comitato intergovernmentale sui disastri che avrà lo stesso peso di quello già esistente sul cambiamento del clima, il quale ha avuto notevole influenza sulla politica mondiale dell'energia. In fine, esistono anche iniziative regionali, come il sistema per la gestione dei viveri (SUMA) utilizzato durante le emergenze in America Centrale e nei Caraibi.[22]
Le iniziative e lo scambio di idee internazionali sono impediti dalla mancanza di protocolli che definiscono gli standard per la formazione dei coordinatori di emergenza, per la stesura di piani di emergenza, e per la gestione delle emergenze. Anche se almeno tre strumenti di questo genere esistono, essi non rappresentano un consenso generale sui problemi che affrontano.[23] Questo è un peccato, perché la collaborazione internazionale è da incoraggiare in quanto c'è molto da imparare dall'esperienza delle emergenze e dei disastri proveniente da altri paesi.
Conclusione
Nel campo della protezione civile, i primi anni del ventunesimo secolo sono un periodo di cambiamento e di sperimentazione. La pianificazione e la gestione delle emergenze emergono gradualmente come una professione che prima o poi avrà i propri standard. Gli inesorabili aumenti nello scopo e nella magnitudo degli impatti dei disastri porterà finalmente a un massiccio aumento nella domanda del pubblico per maggiore sicurezza. I professionisti in questo settore dovranno essere preparati per cogliere l'occasione quando questo avviene e i parametri del lavoro cambiano radicalmente. Nel frattempo, la rapida entità di cambiamento tecnologico sta dando luogo a molte nuove opportunità per pianificare, gestire e comunicare i rischi e i disastri in modo innovativo, e queste richiederanno nuove iniziative di formazione e di addestramento. In sintesi, il coordinamento delle emergenze è un campo che sta sull'orlo di nuovi sviluppi di grossa entità, le quali costituiscono una sfida a tutte le persone coinvolte.
Le iniziative e lo scambio di idee internazionali sono impediti dalla mancanza di protocolli che definiscono gli standard per la formazione dei coordinatori di emergenza, per la stesura di piani di emergenza, e per la gestione delle emergenze. Anche se almeno tre strumenti di questo genere esistono, essi non rappresentano un consenso generale sui problemi che affrontano.[23] Questo è un peccato, perché la collaborazione internazionale è da incoraggiare in quanto c'è molto da imparare dall'esperienza delle emergenze e dei disastri proveniente da altri paesi.
Conclusione
Nel campo della protezione civile, i primi anni del ventunesimo secolo sono un periodo di cambiamento e di sperimentazione. La pianificazione e la gestione delle emergenze emergono gradualmente come una professione che prima o poi avrà i propri standard. Gli inesorabili aumenti nello scopo e nella magnitudo degli impatti dei disastri porterà finalmente a un massiccio aumento nella domanda del pubblico per maggiore sicurezza. I professionisti in questo settore dovranno essere preparati per cogliere l'occasione quando questo avviene e i parametri del lavoro cambiano radicalmente. Nel frattempo, la rapida entità di cambiamento tecnologico sta dando luogo a molte nuove opportunità per pianificare, gestire e comunicare i rischi e i disastri in modo innovativo, e queste richiederanno nuove iniziative di formazione e di addestramento. In sintesi, il coordinamento delle emergenze è un campo che sta sull'orlo di nuovi sviluppi di grossa entità, le quali costituiscono una sfida a tutte le persone coinvolte.
Note
[1] Coburn, A. e R. Spence 1992. Earthquake Protection. Wiley, New York, 355 pp.
[2] Drabek, T.E. 1986. Human System Response to Disaster: An Inventory of Sociological Findings. Springer-Verlag, New York, 509 pp.
[3] Alexander, D.E. 2000. Confronting Catastrophe: New Perspectives on Natural Disasters. Terra Publishing, Harpenden, UK (http://www.terrapublishing.net/), Oxford University Press, New York, 280 pp. (http://www.oup-ny.com/)
[4] Kunreuther, H. e R.J. Roth Sr (eds) 1998. Paying the Price: the Status and Role of Insurance Against Natural Disasters in the United States. National Academy Press, Washington, D.C., 320 pp.
[5] Solecki, W.D. e S. Michaels 1994. Looking through the post-disaster policy window. Environmental Management 18(4): 587-595.
[6] Alexander, D.E. 2002. Principles of Emergency Planning and Management. Terra Publishing, Harpenden, UK (http://www.terrapublishing.net/), Oxford University Press, New York (http://www.oup-ny.com/).
[7] Baldwin, R. 1994. Training for the management of major emergencies. Disaster Prevention and Management 3(1): 16‑23.
[8] Alexander, D.E. 1999. The content of emergency training programs. In P. Fontanari, S. Pittino, D. Alexander e S. Boncinelli (curatori) La Protezione Civile verso gli Anni 2000. CISPRO, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze: 309-316.
[9] Neal, D.M. 2000. Developing degree programs in disaster management: some reflections and observations. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 18(3): 417-438.
[10] Fischer, H.W. III 1998. The role of the new information technologies in emergency mitigation, planning, response and recovery. Disaster Prevention and Management 7(1): 28-37.
[12] Gruntfest, E. e M. Weber 1998. Internet and emergency management: prospects for the future. International Journal of Mass Emergencies and Disasters 16(1): 55-72.
[13] Stephenson, R. e P.S. Anderson 1997. Disasters and the Information Technology revolution. Disasters 21(4): 305-334.
[14] Irwin, R.L. 1989. The Incident Command System (ICS). In E. Auf Der Heide, (curatore), Disaster Responses: Principles of Preparation and Coordination. Mosby, St Louis, Missouri, 133-163. Questo libro può essere scaricato gratis da Internet al seguente indirizzo: http://coe‐dmha.org/dr
[15] Laford, R. 1999. Planning and Practice: A Guide for Emergency Services: Planning and Operations. Responder Publications, Tampa, Florida, 120 pp.
[16] Quarantelli, E.L. 1997. Problematical aspects of the information/ communication revolution for disaster planning and research: ten non‑technical issues and questions. Disaster Prevention and Management 6(2): 94‑106.
[17] Mitchell, J.T. 1997. Can hazard risk be communicated through a virtual experience? Disasters 21(3): 258-266.
[18] Platt, R.H. 1999. Disasters and Democracy: The Politics of Extreme Natural Events. Island Press, Washington, D.C., 320 pp.
[19] Prater, C.S. e M.K. Lindell 2000. Politics of hazard mitigation. Natural Hazards Review 1(2): 73-82.
[20] U.S. National Research Council, 1987. Confronting Natural Disasters: An International Decade for Natural Hazard Reduction. National Academy Press, Washington, D.C., 60 pp.
[21] Mowjee, T. 1998. The European Community Humanitarian Office (ECHO): 1992‑1999 and beyond. Disasters 22(3): 250-267.
[22] De Ville De Goyet, C. 1996. SUMA (Supply Management Project), a management tool for post-disaster relief supplies. World Health Statistics Quarterly 49: 26-32.
[23] NFPA 1600. Standard on Disaster/Emergency Management and Business Continuity Programs (2000). National Fire Protection Agency, Quincy, Massachusetts: http://www.nfpa.org/; Sphere Project, Humanitarian Charter and Minimum Standards in Disaster Response (1998). The SPHERE Project, Ginevra: http://www.sphereproject.org/; UK Home Office Standards for Civil Protection in England and Wales (1999).Home Office Communication Directorate, Londra. http://www.homeoffice.gov.uk/epd/.